“Euforia irrazionale. Alti e bassi di Borsa”. Questa affermazione appare coerente e sufficientemente esplicativa per commentare quanto si legge sui vari media nazionali a giustificazione delle attuali quotazioni raggiunte dal principale indice azionario mondiale S&P 500. Molti, moltissimi, probabilmente troppi, sono gli osservatori che vogliono pavoneggiarsi (fin da ora) nell’aver previsto il “probabile”, “imminente”, “scontato” crollo del mercato azionario. Le analisi previsionali adottate sono molteplici, ma quella che più caratterizza la “profezia” dell’”ormai ovvio” ribasso fonda principalmente le proprie basi sul concetto di avere una borsa americana completamente scorrelata dai multipli di bilancio delle stesse aziende che ne fanno parte. La conclusione alla quale si arriva è sempre la medesima ovvero l’attuale valore raggiunto dalla borsa ritenuto troppo “caro” rispetto ai reali fondamentali.
Noi stessi condividiamo questo concetto e l’abbiamo anche già menzionato, ma, rispetto al metodo che viene impiegato dagli “illuminati profeti”, non riteniamo che sia l’(unico) elemento a supporto dell’eventuale discesa dei mercati, bensì uno dei molti. In questa sede, e coerentemente con la nostra logica quantitativa legata ai numeri, vogliamo subito sfatare l’ormai celebre mito di avere prezzi troppi cari rispetto a valori reali.
Generalmente, per meglio rappresentare tale definizione, viene impiegato il rapporto P/E (Price/Earnings) con il suo andamento grafico sovrapposto a quello dell’indice S&P 500. Un’applicazione che sicuramente è accattivate dal punto di vista comunicativo, ma – operativamente – non può essere a sostegno del concetto di “troppo caro o poco caro”. Iniziamo a introdurre il concetto di P/E utilizzando la definizione presente nella sezione Glossario di Borsa Italiana: «Rapporto tra la quotazione (prezzo di mercato) dell’azione di una società e gli utili per azione. Si esprime anche come rapporto tra la capitalizzazione di borsa dell’emittente e gli utili conseguiti. È noto sia come Price/Earnings (P/E) sia come Prezzo/Utile per Azione (P/U)».
Oltre alla definizione, è presente anche un dovuto approfondimento di cui riportiamo solo una parte ovvero: «Indica quante volte il prezzo dell’azione incorpora gli utili attesi e quindi quante volte l’utile di una società è contenuto nel valore che il mercato le attribuisce. Quanto più P/E è alto, tanto maggiori sono le aspettative degli investitori sulla crescita della società. Infatti, un valore elevato di P/E indica che il mercato è disposto a pagare molto per avere il livello di utili al denominatore, in quanto crede nella capacità dell’azienda di incrementarli ulteriormente. Nell’ipotesi di utili costanti, P/E rappresenta il numero di anni necessari all’investitore per recuperare il capitale investito».
Dalla definizione e dallo stesso approfondimento emerge chiaramente l’utilità di questo rapporto, ma è doveroso – come sempre – contestualizzare con i numeri e il mercato la realtà dei fatti. L’attuale P/E del mercato azionario Usa è prossimo ad area 20 e pertanto sorge la fatidica domanda: ci troviamo di fronte a un livello così alto da poterlo definire “caro”? La risposta che noi diamo è la seguente: è sicuramente elevato, ma non sufficientemente per potersi definire “caro” ovvero rappresentativo di un vero e proprio eccesso. Questa considerazione non è “la nostra profezia”, ma quella che “il mercato” ha rappresentato nel corso degli ultimi 60 anni.
Chi legge, potrà vedere nel grafico, come siano stati raggiunti valori di P/E ben al di sopra degli attuali: quota 23 nel 1987, oltre soglia 26 nel 1997, fino ad arrivare al vero e proprio eccesso di area 29 prima dello scoppio della bolla degli 2000. I numeri, la storia, è questa. Pertanto – oggi – è corretto argomentare sull’entità di un P/E elevato in termini relativi solo se rapportato agli ultimi anni, ma, come invece evidenziato, se il tutto viene raffrontato alla sua stessa storia, la realtà è ben diversa. Come spesso accade.
Dal nostro punto di vista, al fine di poter misurare e valutare l’economicità (o meno) degli attuali valori di mercato, è opportuno cambiare indicatore e utilizzare un rapporto ben più complesso nella sua formulazione, ma maggiormente “robusto” nel suo riscontro: il Cape (Cyclically adjusted price-to-earnings) ratio o Shiller P/E ideato dallo statunitense Robert Shiller. Il grafico riportato ne rappresenta la dinamica nel corso degli ultimi 60 anni. Come si può vedere – l’attuale livello pari a 30 – è molto alto, ma ancora inferiore ai valori dello scorso 2017 e del più lontano periodo 1999-2000. Rispetto a quest’ultimi raffronti, si notano evidenti divergenze (linee rosse e blu) tra i prezzi del mercato (rif. S&P500) e lo stesso Shiller P/E. Queste distonie sicuramente devono far riflettere sull’attuale momento.
Per chi scrive, la conclusione è la seguente: il mercato azionario Usa “prezza” sicuramente molto rispetto ai propri fondamentali, ma solo se si impiega lo strumento creato da Shiller e non in base al più semplice rapporto P/E. Per chi legge, invece, un invito: diffidate dalle notizie semplici e graficamente più accattivanti perché circoscritte a brevi e recenti archi temporali (rif. ultimi 10 anni). La realtà è sempre più complessa e deve essere estesa il più possibile.
Permetteteci un’ultima considerazione a sostegno di queste conclusioni alle quali «chi scrive» è arrivato a favore di «chi legge»: nell’argomentazione presente sul Glossario di Borsa Italiana si legge come il P/E sia «il multiplo più ampiamente utilizzato per i seguenti motivi: a) È una statistica intuitivamente attraente che collega il prezzo agli utili correnti; b) È semplice da calcolare e per la maggior parte dei titoli è ampiamente disponibile». Ovviamente ci sono altri elementi che lasciamo a voi tutti il dovuto approfondimento, ma a noi basta quanto finora esposto.
Ultima – ma davvero ultima considerazione – perché ritenuta obbligatoria e doverosa: l’iniziale “Euforia irrazionale. Alti e bassi di Borsa” non è un’affermazione. bensì il titolo italiano dell’opera scritta da Robert J. Shiller. Quest’ultimo possiamo “solamente” dire che è un economista, nonché Premio Nobel per l’economia nel 2013. A tutti voi lasciamo le conclusioni.