Un report prodotto da T.Rowe Price ieri mattina ha trovato spazio tra le notizie principali dei principali organi di informazione finanziaria. Secondo la società americana, che gestisce fondi per circa 1.500 miliardi di dollari, il rendimento del decennale americano potrebbe raggiungere nel 2025 il 6% per la prima volta negli ultimi vent’anni. Per il capo degli investimenti della società il deficit fiscale americano, spinto dai tagli fiscali di Trump, i dazi e le politiche migratorie potrebbe sostenere i prezzi e quindi anche i rendimenti.



Questo, ovviamente, non è quello che accadrà, né quello che succederà probabilmente, ma uno scenario possibile a cui il mercato in questi giorni sembra dar credito. C’è stata, notava Bloomberg ieri, una lenta ma costante revisione delle aspettative sui tagli dei tassi per l’anno prossimo. Solo una settimana e mezza fa gli investitori scontavano tre tagli e una probabilità superiore al 50% di un quarto taglio nel 2025 da parte della Fed; ieri invece si scontavano solo due tagli e una piccola probabilità di un terzo. Le vendite al dettaglio americane, comunicate ieri, non consegnano uno scenario di recessione. I dati più recenti sulla spesa delle famiglie americane mostrano un rimbalzo nelle prime settimane di dicembre. Anche il mercato del lavoro non si è indebolito come si temeva qualche mese fa. L’inflazione “tiene” più di quanto si pensasse e soprattutto la curva dei rendimenti delle obbligazioni americane riflette aspettative di inflazione più alte sul lungo termine.



In questi giorni il dibattito si sposta sulla durata del ciclo di tagli della Fed in un quadro di incertezza. Gli Stati Uniti possono offrire crescita industriale, costi energetici ai minimi e continuano a essere una calamita per i risparmi globali nonostante gli squilibri dei conti pubblici e dei saldi commerciali. Mentre si allarga il rendimento tra le obbligazioni europee e quelle americane con il cuore industriale europeo in crisi, è inevitabile chiedersi se ci possano essere contraccolpi per i mercati finanziari europei. Gli investitori non sembrano mostrare crisi di rigetto per la traiettoria economica americana; salgono i principali indici azionari di New York, salgono i rendimenti e sale anche il dollaro. In realtà, per completezza, emergono segnali di stress in alcuni angoli dei mercati finanziari; il rialzo dei Bitcoin o dell’oro sono un esempio. Nonostante ciò il sistema nel complesso regge



Diventa difficile convincere i risparmiatori europei, se questo è il quadro, a investire in Europa e a non spostarsi dall’altra parte dell’Atlantico per lucrare su rendimenti più alti in aggiunta a una rivalutazione del cambio. L’Europa dovrebbe difendersi da una posizione di crisi strutturale mentre è impegnata, ormai in solitaria, in una transizione energetica che ha costi colossali e che pesa sui bilanci delle famiglie e delle imprese. Discutere di eurobond, strumenti di debito comune o di un ruolo da protagonista della Bce non aiuta. Queste discussioni da un lato aprono diatribe e sospetti dentro l’Europa e dall’altro certificano che l’Europa non ha una risposta pronta per le “sfide di adesso”. È lecito chiedersi se il contesto attuale permetta all’Europa di iniziare, mettere a terra e completare “piani quinquennali” che non si conciliano con la velocità con cui si evolve lo scenario.

In secondo luogo bisogna chiedersi a quale prezzo l’Europa si possa dare questo tempo mentre si discute di proteggere l’industria europea con dazi “green” e di strumenti in cui “convogliare” il risparmio degli europei. Tutto sembrerebbe consigliare all’Europa un realismo e un buon senso assoluti; più che risolvere il problema energetico del 2050 bisognerebbe, insomma, discutere dei prossimi sei mesi o al massimo dei prossimi due o tre anni.

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