Il rendimento del decennale italiano ieri pomeriggio alle due e mezza è improvvisamente salito oltre il 5% per poi ritracciare e chiudere al 4,9%. L’impennata è stata contestuale alla pubblicazione degli ultimi dati sul mercato del lavoro americano che a settembre ha aggiunto più occupati delle attese. La dinamica che spinge al rialzo il tasso delle obbligazioni italiane, per ora, è profondamente diversa da quella del 2011, quando l’Italia era alle prese con una crisi dei debiti sovrani specifica. I rendimenti delle obbligazioni statali dei principali Paesi sono saliti contestualmente; sale anche lo spread perché lo stress finanziario che produce il rialzo dei tassi colpisce maggiormente chi viene percepito come più fragile.
Siamo in una fase particolare perché mentre il mercato da un lato sembra aver accettato che i tassi rimarranno alti più a lungo, dall’altro è convinto che questi siano o i livelli massimi o qualcosa di molto simile; da qua in avanti la strada dei tassi è sostanzialmente in discesa e, al limite, l’unica questione da risolvere è quando inizi il calo. Questo era più o meno quello che si diceva sei mesi fa; nel frattempo il rendimento del decennale italiano è passato dal 4% al 5% e quello americano dal 3,4% al 4,8%.
Il “problema”, per molti settori industriali e finanziari già in difficoltà, è che non siamo in una fase di recessione e gli ultimi dati sul mercato del lavoro americano lo confermano. È inutile vivisezionare il dato e dividerlo tra incrementi dei posti di lavoro part-time e a tempo pieno. Quello che importa è che il mercato del lavoro è ancora in grado di generare nuovi posti di lavoro.
Si fa strada, quindi, la prospettiva di un “soft landing”, un atterraggio morbido dell’economia, che non comporta né tagli rapidi dei tassi, né uno sgonfiamento veloce dell’inflazione. Il motore di questo soft landing, nonostante le condizioni già critiche di alcuni settori, è il deficit pubblico che negli Stati Uniti non accenna a diminuire; il debito pubblico americano, anzi, aggiorna nuovi massimi con una velocità irreale. Questo quadro non solo giustifica il mantenimento di questi tassi per altri mesi, ma un ulteriore incremento. Il deficit, americano in primis, è il motore che sostiene tutto ed evita che le criticità già in atto sfocino in una crisi vera.
Più a lungo dura questa situazione, più alto sarà il prezzo da pagare alla fine e più danni farà la volatilità finanziaria che un aumento dei tassi inevitabilmente comporta. Aggiungiamo che la Fed ha storicamente sempre cercato di evitare crisi economiche e finanziarie nell’anno elettorale per evitare di influenzarne l’esito. L’orizzonte, quindi, potrebbe spostarsi di altri sei mesi. Le crisi potrebbero manifestarsi nella periferia dell’impero, ma sono le condizioni del suo centro a dettare l’agenda; senza una crisi in America non c’è un’inversione vera.
Gli strumenti principali per prepararsi alla fase che si apre e, ancora di più, al suo epilogo sono due. Il primo è la capacità del sistema di sopportare tassi in salita e, eventualmente, di convogliare il risparmio offrendo una prospettiva di crescita e risanamento dei conti. Il secondo è la capacità di combattere l’inflazione senza mezzi monetari; in questo caso l’ingrediente principale è un’ampia disponibilità di energia a basso costo.
Se il mercato si convince che non c’è alcuna recessione imminente e che questo accade perché il deficit pubblico rimane elevato, allora lo scenario è quello di un ulteriore rialzo dei tassi. Sperare che una recessione spezzi questa dinamica è, come minimo, poco lungimirante.
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