Provate a indovinare il picco massimo toccato dall’indice principale della Borsa italiana, il Ftse Mib. È così remoto nel tempo che ben pochi addetti ai lavori se lo ricordano: 51.273 punti, stabilito il 7 marzo 2000, più di 22 anni fa. Da allora molta acqua è passata sotto i ponti.

L’indice S&P 500, l’indicatore più seguito sui mercati Usa, è prima scivolato ai minimi del marzo 2009 (quota 666 punti) sotto la pressione della crisi dei subprime, per poi mettere a segno un rally formidabile culminato giusto un anno fa a 4.800 punti, cioè otto volte tanto, per poi scendere in questi giorni a quota 3.800. Meno vivaci, ma in costante movimento, l’indice di Francoforte, Parigi e Londra, impegnati in questi anni a conquistare una leadership continentale che, anche in tempi recenti, ha coinciso con nuovi record storici. Nel frattempo Piazza Affari è scivolata a quota 24-25.000, il livello in cui vivacchia da tempo: la metà o giù di lì dei livelli toccati la bellezza di 22 anni fa, prima dell’attentato alle Torri Gemelle.



Difficile trovare un esempio più eloquente dell’immobilismo della società italiana. Certo, la Borsa non è per forza uno specchio fedele dell’economia del Paese. Ma in parte il ritardo riflette ancora il terreno perduto dallo scoppio della crisi di Lehman Brothers fino alla frenata imposta dall’austerità. Solo da poco, d’altronde, l’Italia ha recuperato i livelli di crescita del 2007. L’anno che ha preceduto la grande crisi.



Intanto sono andati in mille pezzi i sogni di gloria maturato a cavallo dl millennio, quando con grande enfasi e nessun risultato venne promossa la campagna per la piazza finanziaria di Milano che nei sogni di Tomaso Padoa Schioppa doveva portare alla creazione di una piazza finanziaria paragonabile alla concorrenza europea, piattaforma ideale per garantire gli scambi sulle società emerse dalle privatizzazioni di fine millennio.

Roba di vent’anni fa. O anche più. Da allora sono spariti dalla scena di Piazza Affari non pochi protagonisti. I Benetton, ad esempio, hanno ritirato dal listino l’azienda di abbigliamento, proceduto al delisting di Atlantia e all’uscita di Autogrill, destinato alle nozze con l’elvetica Dufry. L’impero costruito da Leonardo Del Vecchio ha preso la via di Parigi (anche se il cuore industriale di Luxottica resta in Veneto). La capofila del gruppo Agnelli, Exor, è entrata nel paniere principale di un mercato azionario. Che non è Milano, bensì Amsterdam, dove già figura la sede di Stellantis assieme a quella di Ferrari.



I grandi gruppi privati, quelli che avrebbero dovuto creare il nucleo duro del capitalismo italiano dopo le privatizzazioni, si è squagliato come neve al sole. Nel listino, oltre alla coppia Eni/Enel, resta Telecom Italia, l’eterna incompiuta che il Governo cerca di far rientrare, non si sa bene con quali soldi, nell’area pubblica. Le grandi famiglie, da Falck a Pesenti, sono sparite dal radar dei mercati. Marco Tronchetti Provera recita il ruolo di uomo di fiducia della cinese ChemChina.

Non si tratta, per carità, di piangere il tempo che fu. Il capitalismo si evolve, cambia pelle e protagonisti. Ma i nomi nuovi stentano a imporsi sulla scena. Da Prysmian a Interpump, da Campari a De Longhi o Moncler (per non parlare di Prada o Zegna) non è breve la lista delle aziende di casa nostra in grado di compiere il salto di qualità, aggregando magari con il sostegno delle banche o della Cdp, aziende interessanti cui offrire visibilità finanziarie, strategie e management di respiro internazionale.

In realtà, però, le cose si muovono con estrema lentezza: un po’ perché specie negli anni bui, nota Gianni Tamburi, gli imprenditori preferiscono rinviare le scelte. Un po’ perché l’ambiente esterno, politica in testa, non aiuta. Ma così cresce il rischio di andare in tilt alla prossima crisi.

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