Il primo aspetto che balza agli occhi relativamente alla situazione attuale è la divergenza tra il tasso di inflazione, così come misurato dal Cpi, e la struttura dei tassi di interesse, soprattutto quelli relativi al decennale governativo che attualmente oscilla attorno all’1,5%.

Il Cpi complessivo è sì al 6,88%, ma il tasso sul Treasury decennale inlation indexed (Tips) è al – 0,98%, quindi il tasso di inflazione medio atteso per i prossimi dieci anni si attesta intorno al 2,45%. O perlomeno, questo è quello che il mercato si aspetta (teoria delle aspettative).



La parte implicita di tutto ciò si risolve nel fatto che la Fed e il Tesoro Usa faranno tutto quello che è in loro potere per tenere i tassi sui governativi il più bassi possibile, anche a costo di avere tassi di interesse reali abbondantemente negativi. La Fed è il principale acquirente dei titoli governativi e, teoricamente, può decidere di emettere titoli del Tesoro americano ben al di sotto del tasso di inflazione per molto tempo.



Tassi superiori agli attuali creerebbero enormi problemi al deficit pubblico statunitense e sembra che, data l’attuale situazione inflazionistica, ulteriori progetti espansivi sul piano della politica fiscale siano per il momento da accantonare.

Alta inflazione solo temporanea?

Molti osservatori, tra i quali chi scrive, ritengono che la natura di questa inflazione sia da ascriversi puramente al profondo cambiamento della “supply chain” che la pandemia ha creato, modificando profondamente l’equilibrio di alcuni mercati chiave delle materie prime, del mercato del lavoro e della geografia medesima di tali mercati. È di tutta evidenza che, anche ammesso che tutto ciò fosse prevedibile sotto un profilo di pura analisi, non lo era certamente nella quantificazione e nelle sue dinamiche di trasmissione all’economia reale.



Ribadiamo inoltre, se mai ce ne fosse bisogno, che il principale mandato della Fed è il raggiungimento della piena occupazione naturale e della capacità produttiva e, contemporaneamente, un tasso di inflazione e un tasso di interesse moderati. Attenzione: a nostro avviso, la differenza di filosofia e di mandato con la Bce è abissale.

La Bce diversa dalla Fed

La Bce ha come obiettivo principale la stabilità monetaria, con un’inflazione bassissima e con effetti pienamente deflattivi, soprattutto nel mercato del lavoro, gli altri obiettivi essendo ad essa subordinati. La Fed potrebbe anche sacrificare un po’ di inflazione pur di raggiungere la piena occupazione e la crescita di output del sistema.

La Bce ha sacrificato abbondantemente le economie dei singoli Stati, perseguendo le sue politiche deflattive e l’austerity conseguente. Ma questo sarebbe oggetto di un altro intervento.

L’inflazione esiste non solo nella mente degli operatori

Non è mai stata molto abile la Fed (né rientra nel suo mandato) prevedere con sufficiente tempestività ogni shock esogeno a quello puramente monetario che, come conseguenza di un evento “entelechiano” come la pandemia Covid-19, provoca sul lato della domanda-offerta aggregate un totale disequilibrio come quello cui stiamo assistendo.

Tuttavia, la narrativa della transitorietà utilizzata, se da un lato aveva il solo scopo di tranquillizzare i mercati, dall’altro si è rivelata debole proprio in considerazione della natura dei mercati stessi, che sono estremamente inclini a periodi di irrazionale esuberanza e depressione. In più il fenomeno esiste, c’è, è oggettivo. Non è semplicemente una percezione degli operatori.

Quindi, all’interno di questo quadro, si delineano due schieramenti di campo: coloro che richiedono un intervento immediato di politica monetaria restrittiva e coloro i quali ancora dubitano della permanenza del fenomeno inflattivo, attribuendogli al massimo una vita autonoma di un altro anno (ma questi ultimi ormai sono pochissimi).

La Fed tirata per la giacchetta

In sostanza, i fautori dell’interventismo auspicano due azioni specifiche e distinte da parte della Fed. La prima, com’è noto, è l’immediato tapering, che comporterebbe la diminuzione di offerta di moneta nel sistema. A seconda della velocità con cui ciò avvenisse, si creerebbero necessariamente delle pressioni al rialzo sui tassi di interesse.

Il secondo tipo di intervento è un aumento graduale del Federal funds rate, il tasso overnight al quale le banche in eccesso di riserva prestano denaro alle altre banche. Secondo alcuni, più “falchi”, il 2022 dovrebbe già prevedere più di un aumento, di 25 punti base ciascuno. Secondo altri si tratterebbe di un aumento nel 2022 e di altri due nel 2023.

Ma quali sono le potenziali conseguenze di una tale manovra? Da un grafico estratto dalla Fed di St. Louis è possibile studiare la quantità di moneta – M2 – immessa fino ad oggi nel sistema e visualizzare l’impennata di tale quantità nel 2020, anno della pandemia.

Una M2 senza precedenti

Siamo in presenza di un ammontare di moneta che non ha precedenti. Fino a pochi mesi fa, le economie dei paesi occidentali erano alle prese con un tasso di inflazione che faticava a raggiungere il 2% e tassi di interesse vicino (o sotto in alcuni casi) lo zero. La causa dell’inflazione non è monetaria, ovviamente, ma ora tutto questo bel castello creato in più di dieci anni è scomodo e rischia di esplodere tra le mani dei banchieri centrali.

Agire sulla quantità di M2 in modo deciso è un’impresa delicata. Bisognerà attendere la reazione dei mercati. Ma anche ipotizzando un tapering morbido e un controllato aumento del Federal funds rate, si rischia di porre in atto una politica dalle conseguenze difficili da prevedere.

Il problema che nessuno riesce a delineare con chiarezza, e che sinceramente non abbiamo visto molto affrontato, è quello relativo alle conseguenze sul mercato del credito che tutto questo potrebbe creare. A una recessione nelle variabili “reali” del sistema potrebbero accompagnarsi situazioni esplosive sul lato degli high yield bond e del mercato dei derivati del credito e dei tassi.

Borse e paesi emergenti a rischio?

Il rialzo dei tassi troppo anticipato avrebbe delle conseguenze sui mercati internazionali. In primo luogo, un rialzo dei tassi statunitensi provocherebbe un rialzo dei tassi a livello globale. Tra le Banche centrali del globo la Fed finora ha giocato il ruolo più “dovish” di tutte e un rialzo sarebbe un segnale potente per tutte le altre che è arrivato il momento di mettersi in scia e adottare misure analoghe. Inoltre tale rialzo si tradurrebbe immediatamente in un rafforzamento del dollaro, creando ulteriori spinte inflazionistiche extra-Usa e alcuni paesi emergenti potrebbero essere costretti a tassi tali da impedire le fuoriuscite di monete nazionali e il loro ulteriore deprezzamento.

Per finire, ma non meno importante, gli effetti sul debito pubblico e privato le cui conseguenze sono difficilmente prevedibili anche se inevitabili. E inevitabili e imprevedibili sarebbero anche le reazioni delle Borse, in ogni caso difficilmente benigne. Parlare di un crollo delle azioni è sicuramente per il momento troppo azzardato, ma con inflazione in salita e tassi di interesse che corrono per cercare di frenarla è difficile immaginare che le Borse festeggino.

La Fed manterrà i nervi saldi?

Lo scenario 2 prevede un tapering graduale, che ritarda il rialzo dei tassi al 2023, sfruttando ancora per un po’ il raggiungimento degli obiettivi di piena occupazione e sperare che l’inflazione, come un tornado, plachi la sua virulenza grazie a nuovi equilibri nel mercato globale dei beni. Ma sarebbe una scelta azzardata.

Se, come sostenuto anche da Nouriel Roubini, vi sono parecchi trend in atto nell’economia globale che suggeriscono un rialzo strutturale dell’inflazione nel medio e lungo periodo (dopo quasi 40 anni di fenomeno disinflazionistico), farsi trovare troppo “behind the curve” sarebbe un rischio elevatissimo per la Fed e per la sua credibilità.

Powell oggi rischierebbe molto meno, facendo quello che la maggioranza degli addetti ai lavori si aspetta, ovvero indossando il costume da “falco”. Nella peggiore delle ipotesi la sua sarebbe una scelta condivisa, nessuno potrebbe dissociarsi. Si tenga poi presente che alzare i tassi consente di creare le condizioni per combattere la recessione qualora essa si innestasse. Per poterli abbassare in futuro la Fed ha bisogno che i tassi siano superiori a quelli attuali. Questo senza ombra di dubbio.

(1-continua)

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