La Mela non ce l’ha fatta. Apple, in calo nell’ultima seduta del 2021, ha chiuso l’anno a un soffio dall’ennesimo traguardo storico: solo 2.910 miliardi di dollari di valore, sotto l’asticella dei 3 mila miliardi, tanto quanto gli operatori stimano possa valere la casa degli iPhone che, da sola, vale comunque in Borsa quasi quanto il Prodotto interno lordo del Regno Unito, pari a 3.212 miliardi di dollari.



Certo, non è ortodosso mettere a confronto il destino di quasi 70 milioni di fedeli sudditi della Regina con una macchina da profitti che non ha da preoccuparsi di pensioni, sanità, difesa o altre voci di spesa di uno Stato. Ma altri paragoni non sono meno impressionati. Il gigante californiano pesa, ai prezzi attuali, cinque volte tanto l’intera Piazza Affari. E non è esagerato dire che Luca Maestri, il romano direttore finanziario di Apple, è senz’altro lo studente della Luiss che ha fatto più carriera e gode di un prestigio superiore al ministro del Tesoro del Bel Paese.



Ma basta con i paradossi, comunque utili a sottolineare che Leonardo Del Vecchio, patron di Luxottica, non è poi lontano dal vero quando, per giustificare la sua scalata alle Generali, sottolinea che di questi tempi piccolo non è bello. Senza voler entrare nel merito della sua analisi, si può dire che le Borse hanno premiato nel 2021, anno secondo della pandemia, i giganti. Pronti a scontrarsi nel metaverso, la realtà virtuale che rappresenta la prossima frontiera della tecnologia dai risvolti misteriosi e inquietanti, o con il Congresso Usa che tenta di limitare il loro potere. 

Ma non sono comunque pochi gli spunti offerti dalle Borse, flagellate ma non messe fuorigioco dalla pandemia. Anzi, pronte a sfidare il Covid-19 con i primati di Pfizer e Moderna, calamite per utili da brivido. L’anno che verrà, si dice, sarà più avaro con i signori dei listini, vista la tendenza dichiarata all’aumento dei tassi e alla lotta all’inflazione. Ma gli esperti, in realtà, sono scettici: la ripresa in presenza della pandemia resta troppo debole per consentirsi il lusso di una normalizzazione dei mercati finanziari. Al primo segnale brusco di frenata, insomma, le Banche centrali riapriranno i cordoni della Borsa. Per ora, però, prendiamo atto che:



– I listini indossano sempre di più vestiti a stelle e strisce. È quanto emerge dalla fotografia dell’indice MSCI ACWI che raggruppa un totale di circa 3.000 azioni di società quotate su 23 mercati sviluppati e 26 mercati emergenti appartenenti a 11 settori diversi. In esso è rappresentato circa l’85% del totale di ogni mercato per un totale di 70,30 trilioni di dollari di asset. Cinque anni fa i mercati Usa hanno effettuato il sorpasso, al punto da rappresentare il 52% della capitalizzazione complessiva. Oggi la percentuale è salita al 60% abbondante. Al secondo posto, staccato anni luce, figura il Giappone con il 5,72% del valore.

– L’avanzata Usa è stata favorita dalla discesa dei colossi della tecnologia cinese, da Alibaba a Tencent, colpiti per la loro voglia di autonomia, dalla scure di Xi Jinping. Il risultato è che nella top ten per valore oggi figura un solo titolo non statunitense: di tratta di TSMC, il colosso dei chips di Taiwan. Per il resto la classifica è composta da: Apple, Microsoft, Amazon, Meta (ex Facebook), Alphabet (ex Google), Tesla, Nvidia.

– Al decimo posto è spuntato, quasi a sorpresa, il primo titolo non tecnologico: JP Morgan con un valore di borsa di 474 miliardi di dollari. Circa un quarto della capitalizzazione (il 23%) fa infatti capo al mondo tech, davanti ai finanziari (15%). Fa un grande balzo in avanti il comparto pharma, circa il 13% della capitalizzazione.

– Il titolo leader della vecchia Europa è il gigante del lusso LVMH con un valore di mercato pari a 369,33 miliardi per un rapporto prezzo utili che sfiora le 40 volte, un multiplo degno della new economy.

– In questa cornice l’Italia mette a segno un risultato apprezzabile: +23%, al terzo posto in Europa. Ma Piazza Affari resta, unica in Europa, ancora assai distante dai massimi storici, specchio del Paese, anche in questo caso il solo a non aver superato per davvero il trauma dell’ingresso nell’euro. Vale la pena ricordarlo alla vigilia di una partita decisiva per scegliere la squadra che dovrà vigilare sulla realizzazione delle opere del Pnrr. Per ora siamo a metà del guado: ovvero un Paese che importa il 90% dell’energia, ma non riesce a estrarre il gas dal sottosuolo, affrontare il tema del nucleare in maniera non ideologica o permettere la realizzazione di impianti eolici già approvati e finanziati.

Di tutto questo si parlerà con abbondanza nel 2022. Per ora merita ancora porsi una domanda: fino a che punto gli indici di Borsa sono rappresentativi della realtà dei listini? Una ricerca pubblicata dal Wall Street Journal dimostra che l’85% dei gestori dei patrimoni chiude l’anno con un risultato inferiore all’andamento degli indici. Non è un fenomeno inusuale (nel 2020 il dato era pari al 64%), ma quest’anno è stato particolarmente vistoso. Nel corso dell’anno, tra pandemie e minacce di guerra, si è sbriciolato l’ottimismo indotto dalle iniezioni di denaro da parte degli Stati per limitare l’impatto delle chiusure. L’euforia dei vari Robinhooders ha lasciato posto alla delusione e a una sorta di paura: secondo il Financial Times, una fetta rilevante delle opzioni put (protezione contro il ribasso) è oggi sottoscritta da risparmiatori individuali, quegli stessi che in primavera hanno fatto volare le quotazioni di Game Stop o altri cavalli presunti di razza che si sono rivelati dei ronzini.

E così, nonostante l’indice S&P si avvii a chiudere l’anno con un rialzo del 27%, più di 200 società sono sotto del 10% rispetto ai massimi, 90 perdono il 20% circa. Per dirla con Alessandro Fugnoli, “questo svuotamento ha lasciato quasi intatta la scintillante facciata degli indici sui massimi storici, ma ha eroso il valore della grande maggioranza dei titoli e in particolare di quelli più speculativi”. Difficile non condividere la morale del gestore (laureato in filosofia, del resto): “In questo contesto agli investitori occorre anche più del solito mantenere equilibrio di giudizio. Così come era esagerato l’entusiasmo all’inizio dell’anno così ora pare eccessivo il pessimismo provocato più da un senso di stordimento, di delusione e di frustrazione che da un deterioramento strutturale del quadro sottostante”. 

Buon anno, dunque. Nella speranza che si accorcino finalmente le distanze tra ricchi e poveri.

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