La Fed ieri ha deciso, come largamente atteso, di tenere invariati i tassi di interesse. La “notizia” sarebbe l’aumento della probabilità di un rialzo dei tassi, per l’esattezza due, nel 2023 e quindi si comincerebbe a vedere un cambiamento in senso restrittivo della politica monetaria. Nella realtà dei fatti il 2023 per gli investitori è distante un paio di ere geologiche e quello che conta è che invece non ci saranno rialzi di tassi per tutto il 2022, che la Fed abbia detto che i rischi sulle prospettive economiche rimangono aggiungendo che l’incremento dell’inflazione riflette fattori “transitori”.
La Fed ha poi ricordato il mandato di massima occupazione e che, il mercato del lavoro, continuerà, insieme all’andamento dei prezzi, a essere considerato nelle scelte di politica economica. A proposito dei due rialzi previsti al 2023 ricordiamo che il 2024 è anno elettorale e che storicamente la Fed non è mai voluta entrare nell’agone politico congelando le condizioni monetarie all’anno precedente. In sostanza politica accomodante o quasi per i prossimi tre anni.
Nei fatti la decisione di ieri è quindi accomodante e infatti il principale indice azionario americano dopo un iniziale sbandamento si è ripreso. Nessun cambiamento in vista perché il mercato del lavoro americano è molto lontano dalla “massima occupazione” e milioni di americani aspettano ai margini raccogliendo nel frattempo sussidi record. È perfino inutile ridire che la Fed ha deciso di lasciare che l’inflazione corra ancora un po’ scommettendo che a un certo punto rallenti e che gli americani facciano buon viso a cattivo gioco mentre le attività riaprono e i disoccupati ritrovano il lavoro. Meglio ritrovare il lavoro e pagare un po’ più la spesa dell’alternativa.
Il problema è che lo schema e la scommessa reggono fino a un certo punto e cioè solo se i prezzi rimangono “gestibili” e se non scavano solchi troppo profondi nei risparmi e nelle spese mensili delle famiglie. Altrimenti i benefici delle riaperture vengono annullati; ciò è vero soprattutto per alcuni strati della popolazione: chi ha un lavoro e figli e chi è appena entrato nel mercato del lavoro.
C’è un secondo problema ormai evidente: le politiche della Fed alimentano i prezzi degli asset finanziari e in particolare di quelli immobiliari. Nelle città americane, anche quelle di terza o quarta fascia in zone afflitte da un calo della popolazione e delle imprese decennale, sono saliti di quasi il 20% rispetto all’anno scorso. E con i prezzi delle case sono saliti anche gli affitti.
Esattamente come nel 2008 le politiche espansive allargano il divario tra classe meno abbienti e ricchi che essendo investiti in azioni o immobili possono controbilanciare. Solo che questa volta i perdenti includono una fetta maggiore di classe media e il fenomeno ha già una dimensione senza precedenti. Uno degli effetti più evidenti è il crollo della natalità perché le prospettive sono incerte mentre l’incremento del costo della vita è incertissimo e la casa irraggiungibile. I sussidi leniscono il problema e comprano consenso, ma l’incremento dei prezzi, soprattutto se dovesse accelerare, li fa invecchiare rapidamente e di certo non è una fonte di reddito su cui si può “costruire”.
Aggiungiamo al cocktail la ristrutturazione delle catene di fornitura globale, le guerre commerciali e la transizione energetica che toglie dal mercato energia economica e affidabile.
Dopo ieri tutto continuerà come prima nei prossimi mesi. Il gioco dura, anche politicamente, solo entro certi limiti. A un certo punto, in sostanza, gli svantaggi rischiano di superare i benefici e tornare indietro sarebbe complicato perché far scendere i prezzi è molto più difficile e richiede molto più lavoro, anche in termini di nuova capacità, che farli salire. Se la Fed sbaglia le conseguenze economiche sarebbero serie e quelle politiche imprevedibili. Basti pensare che per molto meno ha fatto la sua comparsa un outsider come Trump.
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