Due o tre parole attorno alla Borsa, argomento di scarsa presa negli ultimi tempi come dimostra l’esodo di titoli storici, da Exor a Tod’s. Un tema lontano, almeno all’apparenza, dall’attualità elettorale, Ma che riflette un certo distacco di una parte della classe dirigente dalle cronache politiche del Bel Paese. Non è facile trarre indicazioni generali dall’andamento dei listini azionari. Anche se, a lungo andare, le indicazioni in arrivo dai mercati si rivelano a lungo andare veritiere. Non a caso, Piazza Affari viaggia da tempo immemorabile tra i 20 e i 25 mila punti, toccati prima della fine del millennio. La Borsa, insomma, riproduce in maniera abbastanza fedele la tendenza piatta dell’economia italiana, sostanzialmente ferma, caso unico, da inizio millennio. E nel nostro caso riproduce la difficoltà a rinnovarsi del capitalismo nostrano che, caso unico anche nella vecchia Europa, fatica a individuare nuovi “unicorni”, cioè titoli in grado di salire da zero ad un fatturato superiore al miliardo di euro, impresa riuscita a Yoox, la società bolognese dell’e-commerce poi confluita in Richemont.
Tra le cause del mancato ricambio ai vertici del capitalismo nostrano figura, a prima vista, l’esodo dal listino italiano dei Big, vecchi e nuovi. L’annuncio dell’offerta della famiglia Della Valle ai soci in vista dell’uscita di Tod’s da Piazza Affari è solo l’ultimo episodio della disaffezione dei nomi storici dell’economia italiana verso il mercato dei capitali: si defila il gruppo Agnelli, dopo il trasferimento di Exor ad Amsterdam; si accingono a far le valigie i Benetton, con il delisting di Atlantia e di Autogrill; Essilor Luxottica, il capolavoro di Leonardo Del Vecchio, è quotata a Parigi. Altri nomi storici dell’economia del Novecento sono ormai scomparsi dalla nomenclatura: Falck, Pesenti tra gli altri. Marco Tronchetti Provera è un manager di lusso della Pirelli targata “made in China”, la famiglia De Benedetti, dopo la spaccatura tra papà Carlo e la prole, ha un ruolo marginale. Francesco Gaetano Caltagirone, impiombato nello scontro sulle Generali, è sulla difensiva. Se ne va pure la Roma calcio, mentre i nuovi e vecchi padroni di Milan e Inter si tengono lontani dal mercato azionario. Insomma, i vecchi poteri forti, cantati per decenni dalla pubblicistica economica e politica, non ci sono più.
E così Piazza Affari cambia progressivamente volto. Sono numerosi i delisting delle new entry, per ora già nove nel 2022 (Cerved, Energica Motor Company, Siti – B&T, Sirio, Vetrya, Banca Intermobiliare, Tas, Falck Renewables e La Doria), a fronte tuttavia di tredici nuove immissioni concentrate nel comparto Egm, dedicato alle piccole imprese. È in atto un ricambio. A sostituire i vecchi, ci spiega Dario Di Vico, ci sta pensando una nuova sorta di élite: si tratta di qualche migliaio di imprenditori che, a partire dalla Grande crisi del 2008-2015, hanno dato vita all’affermazione del quarto capitalismo. Ad accorgersene per primo è stato Fulvio Coltorti, l’anima dell’ufficio studi Mediobanca, critico arguto dei limiti del capitalismo classico, quello che Enrico Cuccia, più per necessità che convinzione, difese fino all’ultimo.
I nomi nuovi hanno creato élites orizzontali, capaci di collaborare all’interno dei distretti o di creare valore nelle relazioni internazionali. Ma questi dirigenti di altissimo livello, da Bombassei (Brembo) a Rosa (Diasorin) passando dal tessile abbigliamento al design, dalla chimica all’elettronica, ha nei confronti della Borsa un atteggiamento “laico”: non è il palcoscenico per promuovere la propria immagine, né l’occasione per crescere all’insegna di colpi a sensazione.
In questo contesto gli imprenditori stentano ad assumere una statura pubblica paragonabile a quella esercitata dai Big di un tempo. E non è detto che sia un limite. Ma, a due mesi scarsi dal voto questa élite non si esprime, salvo identificarsi con convinzione nell’esperimento Draghi, senza però dare segni di un maggior coinvolgimento o di una crescita di ruolo.
Certo, le motivazioni per il delisting sono le più diverse e non sono il segnale di un minor impegno imprenditoriale. Ma fa specie prender atto che la Borsa italiana pesi poco più del 2% nella capitalizzazione complessiva a livello globale. O che Piazza Affari, che nel 2000 rappresentava il 51% del Pil, oggi sia scivolata a un terzo. Per giunta con una forte rappresentanza di titoli dell’area pubblica, da Enel/Eni alla scuderia Cdp.
Per consolarci possiamo osservare che un fenomeno simile si sta verificando nella Borsa Usa, dove si assiste a un ribasso di lungo periodo delle società statunitensi quotate determinato dall’aumento del private equity, dagli elevati costi di quotazione nonché dai bassi tassi di interesse. Ma adesso, di fronte al rialzo del costo del denaro, s’impone un cambio di rotta. È il momento per introdurre incentivi alla quotazione, operazione dal costo modesto e dal ritorno efficace. Ci pensi il nuovo Governo, chiunque lo guidi.
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