L’altra sera la filiale di New York della Fed ha assorbito 756 miliardi di dollari di liquidità in arrivo da 70 operatori grazie all’emissione di altrettanti reverse repo, cioè contratti di pronti contro termine con cui la banca centrale si è impegnata al riacquisto a un prezzo lievemente positivo (lo 0,05%) sufficiente a evitare la discesa dei tassi in terreno negativo.



Insomma, la liquidità immessa nel sistema dalla banca centrale è così ampia che nessuno sa che farsene, ma la Fed per ora riesce a padroneggiare la situazione grazie all’assenza di alternative. La locomotiva, insomma, va. Ma il rischio di deragliare, vista la velocità di crociera del convoglio, cresce.

I prezzi delle materie prime, intanto, sono più che raddoppiati nell’ultimo anno. Il petrolio grezzo, dai minimi di maggio 2020 è cresciuto tra il 119% (Brent) e il 128% (Wti). Il rame è cresciuto del 94%, l’acciaio del 121%, i fertilizzanti del 118%. Di qui l’esistenza di focolai di inflazione un po’ ovunque. In Asia, dove la politica economica di Pechino è intervenuta con grande decisione, tagliando gli acquisti di commodities anche a costo di ridurre l’export. In Europa, il ciclo è ancora sotto controllo, vista la minor crescita e le condizioni del mercato del lavoro ancora squilibrate a favore dell’offerta. Negli Stati Uniti, invece, l’inflazione ha avuto un balzo in avanti fino al 5% in aprile, e tutti gli osservatori pensano che nel 2021 resterà poco sotto il 4%, cioè sopra il target della Fed, che però va rispettato nel ciclo e non puntualmente.



Di qui il nervosismo delle piazze finanziarie. La grande maggioranza degli osservatori è convinta che la Fed debba agire, meglio prima che poi. Anche se l’aumento dell’inflazione può esser giudicato un momento temporaneo, l’enorme sostegno alla ripresa praticato in questi mesi rischia di creare effetti indesiderati, specie se l’Amministrazione Biden non riuscisse a far decollare i piani di spesa a fronte dell’opposizione repubblicana. In quel caso, il meccanismo messo a punto dalla Casa Bianca rischia di incepparsi con effetti negativi sulla ripresa appena avviata, specie sul fronte dei salari. 



Di qui la sensazione che la squadra di Biden abbia deciso di dar battaglia con l’obiettivo di forzare i tempi della ripresa per presentarsi alle elezioni di Midterm al massimo del ciclo. Una scommessa destinata a funzionare se, nel frattempo, l’aumento dei prezzi rientrerà nei ranghi dopo la scontata fiammata post-pandemia. Altrimenti saranno dolori: i precedenti degli anni Ottanta ci insegnano quanto sia difficile far rientrare il carovita, più che rimettere il dentifricio nel tubetto. E l’inevitabile aumento dei tassi colpirà sia gli Usa che gli Emergenti, piegati dall’aumento di valore del dollaro. E l’Europa che resta l’area dell’economia globale più sensibile all’andamento dell’export.

Ecco perché i mercati scalpitano, più nervosi di un puledro: basta una pur modesta correzione di rotta, suggerendo che la politica monetaria potrebbe normalizzarsi dal 2023 anziché dal 2024 come ha fatto intendere la Fed per ridar fiato al dollaro e far arretrare oro e criptovalute. 

Il cambio di linguaggio, senza toccare la politica monetaria, è stato sufficiente a provocare primi aggiustamenti dei portafogli degli investitori. Niente di male, purché il fenomeno resti sotto controllo. Anzi, non guasta un po’ di sana paura di fronte all’ottimismo dilagante: il fatto che molti tassi di interesse siano su un trend decrescente dal 1985 non vuol dire che continueranno a rimanere così bassi per sempre. 

Come hanno scritto Francesco Giavazzi e Roberto Perotti, “un motivo per cui molti prevedono che non aumenteranno è la convinzione che le Banche centrali manterranno la liquidità creata con massicci acquisti di titoli di Stato. Tuttavia le banche centrali devono tenere d’occhio l’inflazione, ed è per questo che l’andamento dei prezzi è oggi l’osservato speciale. Negli Stati Uniti l’inflazione viaggia attorno al 5 per cento, ben al di sopra del target del 2 per cento; nell’eurozona in media è ormai vicina allo stesso target. La Fed ha già annunciato che è disposta ad accettare un lungo periodo di inflazione sopra il target senza alzare i tassi; la Bce sin qui non lo ha fatto. Naturalmente tutto questo è irrilevante se l’inflazione attuale fosse temporanea e dovuta agli scombussolamenti da Covid. Ma nessuno lo sa con certezza e tra i banchieri centrali c’è molta più preoccupazione di quanto si lasci trapelare nelle occasioni ufficiali”.  

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