Dobbiamo essere in grado di far crescere accanto all’eccellenza manifatturiera, che è all’origine della nostra eccellente performance sull’export, anche maggiori capacità in termini finanziari”. A dirlo è il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti che, parlando alla “Cabina di regia per l’internazionalizzazione”, ha anticipato “una prossima iniziativa del Governo “per promuovere la competitività del mercato italiano dei capitali”. Non è, per la verità, una grande novità.
Già un paio d’anni fa, nella stessa sede, Giorgetti, all’epoca responsabile del ministero dello Sviluppo economico, aveva parlato di come attrarre gli investimenti esteri nel Bel Paese lamentando l’assenza di una strategia ben mirata. “L’elenco di offerte – aveva detto – è di oltre 1.500 pagine, un compendio di proposte variegate in termini di settori (dalla ricerca avanzata alla vendita immobiliare), di valore (dalle Pmi alle grandi imprese), di aree geografiche e di modalità d’investimento (capitale, M&A, Joint Venture). Tutto molto interessante, ma l’ABC del primo anno di marketing in economia insegna che però un’offerta troppo vaga ed eterogenea ha scarse probabilità di successo”. Ora, spiega Giorgetti, si riparte. “Bisogna migliorare il quadro normativo per attrarre nuovi investitori”.
Il momento sembra propizio: la Borsa italiana vive in uno stato di grazia, dopo aver recuperato le perdite accumulate lo scorso anno; lo spread tra i titoli italiani e i Bund è sceso stabilmente sotto i 180 punti. Ma, sull’altro piatto della bilancia non va trascurato l’orientamento sovranista del Governo: difficile conciliare l’apertura agli investitori esteri con la difesa a tutto campo dei privilegi del balneari. E sullo sfondo resta la diffidenza di sempre.
In una recente intervista al Sole 24 Ore Giorgia Meloni ha dichiarato: “Vogliamo ridurre la dipendenza dai creditori stranieri, aumentando il numero di italiani e residenti in Italia che detengono quote di debito”. Una sorta di sindrome giapponese, Paese che ha il privilegio/condanna di avere il debito pubblico più alto del mondo ma che non spaventa le controparti finanziarie perché i j-bond sono tutti nelle mani dei risparmiatori locali attraverso l’onnipotente Posta e i fondi pensione. Un modello in crisi, anche se ha consentito al Sol Levante di mantenere tassi di interesse bassi, addirittura negativi. Ma la tentazione di incanalare i risparmi degli italiani, almeno quelli che giacciono nei conti correnti, verso il finanziamento del debito resta alta. Soprattutto adesso, alla vigilia di una stagione finanziaria molto impegnativa: sfumato il clima di solidarietà all’origine del Pnrr, l’Italia è alle prese con una delicata svolta della politica comunitaria che richiederebbe una forza finanziaria di cui il Bel Paese, ahimè, non sembra disporre.
Il contributo della Bce al finanziamento del debito è ormai ridotto. E a Francoforte, sotto la scure del caro denaro, prevalgono i falchi. Certo l’inflazione potrebbe essere destinata a scendere al 3% entro la fine dell’anno, come ha previsto Fabio Panetta, il membro italiano della Bce che ha ammonito i colleghi a non esagerare perciò con l’aumento dei tassi, pena il rischio di “guidare a fari spenti nella notte” (citazione di Lucio Battisti). Ma anche se le cose andassero così, la Banca centrale potrebbe limitarsi ad alzare i tassi di un 1% entro giugno per poi restare ferma a lungo, in attesa che la barra dei prezzi inizi a scendere verso il 2%, obiettivo non semplice che richiederà tempi lunghi. Niente di male se, nel frattempo, l’economia crescesse più in fretta del debito. Situazione assai scomoda, invece, se la crescita si limiterà nel 2024 allo 0,9% o poco più, come previsto dal Fmi. A differenza che in passato, infatti, l’Italia non potrà più contare sugli acquisti illimitati di titoli italiani da parte della Bce, quelli che hanno permesso di far funzionare la macchina dello Stato garantendo il collocamento del debito. Ma la Banca centrale ha già deciso che inizierà a non rinnovare più gli acquisti di una parte dei titoli che scadranno nel 2023.
Non meno impegnativo il tema del rinnovo del Patto di stabilità, già sospeso per la pandemia e l’emergenza della crisi energetica. Per quattro anni (compreso il 2023) gli Stati membri sono stati esonerati dalle regole di bilancio ufficiali. Facendo due conti: alla fine del 2022, i Paesi dell’Ue avevano accumulato un debito pubblico di ben 13.000 miliardi di euro. Oggi i più intransigenti chiedono che la Bce anticipi il rientro di quei crediti. Insomma, al netto dei nuovi investimenti, il Governo, oltre al rimborso delle cedole dei vecchi debiti, rischia di dover collocare 80/90 miliardi di nuovo debito in più. Al netto di nuovi sussidi per le bollette (provvedimento finanziato solo per i primi tre mesi del 2023) e degli interventi per la transizione ambientale e digitale piuttosto che per fare fronte alle sfide poste dall’auto e dalla casa “verde” secondo quanto chiesto dalla Ue.
Di fronte a questi numeri si capisce la necessità di sviluppare una strategia della raccolta di capitali capace di operare su più fronti. Ma anche, in parallelo, far quadrato sul fronte della spesa. Senza cedimenti. Come ha fatto il Governo bloccando l’esercizio di sconti in fattura e cessioni dei crediti d’imposta per tutte le tipologie di bonus edilizi, tra cui il superbonus. Oltre allo stop alle future cessioni (tranne quelle relative a interventi già avviati), la stretta prevede anche il divieto per le amministrazioni pubbliche di acquistare crediti fiscali legati a lavori di ristrutturazione. Con l’obiettivo do “mettere in sicurezza i conti pubblici” e risolvere il nodo dei crediti incagliati, come ha detto Giorgetti.
Sarà presto inevitabile far ricorso a più emissioni di Btp Italia, finora accolte con favore dal pubblico dei risparmiatori. Ma a tassi di interesse crescenti, per la gioia dei clienti, non del Tesoro. L’importante è che si operi nel rispetto del mercato senza cercare scorciatoie per convogliare in forma più o meno obbligata il denaro nelle casse pubbliche, spingendo perché banche e fondi pensione immobilizzino le loro risorse nel debito dello Stato. E poi, la cosa più importante è far sì che una quota crescente di capitali, italiani e non, affluiscano alle imprese, almeno quelle che garantiscono “l’eccellenza manifatturiera” di cui parla a ragione il ministro Giorgetti.
Per ora, purtroppo, se ne parla molto ma senza strategia. E così le società fanno le valigie (ultimo caso Cnh) per trasferirsi in Olanda, il Paese dei Falchi del debito.
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