Ieri i mercati hanno consegnato una rara performance negativa dopo che il presidente della Fed di St. Louis, Jim Bullard, ha dichiarato in un’intervista alla CNBC che “è naturale che la Fed sia diventata un po’ meno accomodante” e che “la pandemia sta finendo e quindi è molto naturale iniziare a pensare di ridurre le misure d’emergenza”. Bullard ha continuato “minacciando” l’uscita della banca centrale dal mercato dei prestiti con immobili a garanzia vista l’esplosione del mercato che rischia di produrre una “bolla immobiliare”.
Queste dichiarazioni arrivano in una giornata particolare, con le scadenze tecniche, dopo rialzi che hanno portato i mercati ben oltre i massimi pre-Covid. Gli spunti di Bullard non sono sufficienti per concludere se siamo alla vigilia di un cambiamento sostanziale delle politiche monetarie oppure se sia un avvertimento rispetto ad alcuni fenomeni che si sono visti sia sui mercati che sull’economia reale negli ultimi mesi: le obbligazioni ad alto rendimento negli Stati Uniti, per esempio, hanno registrato i rendimenti reali più bassi di sempre, i prezzi delle materie prime sono in forte salita e il mercato immobiliare è esuberante se non in bolla. Alla vigilia della “driving season”, quando americani ed europei, si mettono in macchina i prezzi alla pompa sono ai massimi da un bel pezzo. Questo avviene mentre sia gli Stati Uniti che l’Europa riaprono e cadono, notizia di ieri, le restrizioni sui turisti americani.
Il rischio è che questi “fenomeni” si surriscaldino troppo e si perda il controllo di una fase delicata in cui lo sforzo delle banche centrali è ancora ai massimi anche se le riaperture proseguono da settimane. L’impressione è che questa sia “tattica” più che strategia perché il bilancio della Fed è in continua espansione e solo settimana scorsa ha sfondato per la prima volta nella storia la soglia di 8mila miliardi di dollari. Le ferite aperte dal Covid sull’economia sono profonde e in più la pandemia è stata l’occasione per un cambio di paradigma, per esempio sulla transizione energetica, che è molto costoso.
Bullard ieri ha dichiarato di vedere i primi rialzi dei tassi per la fine del 2022 a differenza del 2023 dei suoi colleghi della Fed. Anche per i “falchi” mancano ancora 12/18 mesi ai primi rialzi. Senza qualche freno e qualche avvertimento il rischio è di arrivare a ridosso di quegli appuntamenti con bolle ancora più grandi e durature di quelle attuali che già danno fastidio ai consumatori. Questo potrebbe essere il senso delle dichiarazioni di ieri. Non è chiaro come il mercato possa reagire a questi commenti al di là della performance di giornata. Da un lato, le condizioni rimarranno accomodanti e gli investitori lo sanno, dall’altro, ci sono interi settori che sono indifferenti alle reali condizioni di mercato con gli investitori messi nelle condizioni di anticipare la ripresa “impunemente”.
L’unico dato certo è che quello che si è visto nelle ultime settimane, in termini di prezzi, deve aver allarmato i banchieri centrali. A spaventare è stata la velocità e la “violenza” degli aumenti e la distanza dai primi rialzi. Potrebbe essere l’inizio di un nuovo paradigma, almeno per i prossimi mesi, in cui si tenta di mettere un freno agli squilibri più evidenti. Unica “nota stonata” ieri è stato il rialzo del prezzo del petrolio, in una giornata di cali diffusi delle materie prime, a testimonianza che alcuni mercati fisici potrebbero essere in deficit strutturale. La Fed ha potuto stampare dollari, ma non è in grado di stampare grano o petrolio soprattutto se ai dollari e agli euro viene impedito, via regole ambientali, di arrivare in certi settori e aumentare la produzione “fisica”.
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