Il termine “shadow banking” (sistema bancario ombra) applicato a fondi chiusi quali Private Equity, Private Debt (prestiti non bancari) e simili produce un’ambiguità non meritata al riguardo di questi strumenti finanziari. Pertanto si pregano i regolatori di modificare la terminologia di individuazione di questo settore finanziario. Inoltre, appare sorprendente che i vigilanti stiano pensando a nuove regolamentazioni dei “fondi chiusi” che tipicamente hanno un altissimo grado di trasparenza e raccolgono capitale da investitori istituzionali specializzati. Il punto: i regolatori devono distinguere selettivamente tra finanza ordinata e trasparente e quella che non lo è – giustamente da regolamentare – evitando di mettere tutta la finanza non bancaria in un unico mazzo.



Il termine “shadow banking” nasce nel 2007 in America senza significato negativo, ma con uno, semplicemente, di “finanziamento non bancario”. Rischia di diventare negativo quando al termine “ombra” (shadow) si unisce quello “di non regolamentato da regolare”. Ma è una stortura della realtà se non ben specificato, come si è notato recentemente sulla stampa e in alcune posizioni dei regolatori. I fondi chiusi sono regolamentati da istituzioni sul piano dell’obbligo di trasparenza e, soprattutto, sono per statuto continuamente sottoposti al giudizio degli investitori. Per esempio, ogni investimento proposto dal team di gestione di un fondo chiuso richiede l’approvazione di un comitato di investitori.



Si tratta di una regolamentazione privata nel dettaglio? Certamente, ma va annotato che sono quelli che ci mettono i soldi, quindi molto attenti, a valutare se un investimento è accettabile o meno. E il team di gestione deve spiegare molto bene con analisi e scenaristica predittiva nonché con consulenze legali e di esperti di settore, in fase di due diligence, le prospettive di un investimento, con un costo per ogni dossier che serve a minimizzare il rischio. Infatti, con un’esperienza di 25 anni nel Private Equity (acquisto di maggioranze di imprese gestite da team con scala adeguata di personale specialistico) mi sento di dire che il rischio di tale tipo di investimento è minimo se fatto come detto. Ovviamente ci sono differenze tra fondi e queste sono rilevabili dal “track record” (dati storici di prestazione) di ciascuno combinata con la capacità, appunto, di individuare gli scenari futuri macro e micro.



Il personale dei fondi chiusi, tendenzialmente, è sottoposto a un periodo molto lungo di formazione perché deve unire le competenze dell’investment banking a quello dei trend nei diversi settori economici nonché alle capacità di direzione aziendale. Ed è proprio la concorrenza nel settore degli investimenti che è la miglior regolazione di fatto per ottenere qualità, trasparenza e buoni guadagni. Se i regolatori volessero proprio mettere le mani sul settore, dovrebbero favorire l’ingresso dei piccoli investitori retail nei fondi chiusi con durata di dieci anni, più due di grazia, permettendo un mercato efficiente delle quote senza penalizzazioni di sconto se qualcuno volesse uscire prima della scadenza, così dando ai piccoli risparmiatori un accesso a rendimenti mediamente superiori a quelli azionari e di titoli di Stato e perfino di obbligazioni emesse da aziende. E anche dare più accesso regolatorio ai fondi chiusi, ora troppo limitato, ai fondi pensione.

Lascio il tema alla competenza dell’Aifi (Associazione dei fondi chiusi di investimento in Italia): abolire il termine “finanza ombra”, ripescando la dichiarazione dello Fsb (organizzazione per la stabilità finanziaria globale del G20) che nel 2018 sostituì il concetto di “shadow banking” con quello di “intermediazione finanziaria non bancaria”.

www.carlopelanda.com

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