Il Pil americano nel primo trimestre dell’anno è salito dell’1,6%, molto al di sotto delle attese che indicavano una crescita del 2,5%. Anche la spesa per i consumi ha deluso le aspettative con un incremento del 2,5% rispetto ad attese del 3,0%.
Questi numeri avrebbero giustificato un indebolimento del dollaro e un calo dei rendimenti delle obbligazioni americane. Se l’economia rallenta si avvicina il momento in cui la Fed potrà tagliare i tassi e questo significa un dollaro più debole e, soprattutto, minore costo del debito. La reazione dei mercati è stata invece diametralmente opposta: il dollaro si è rafforzato e il rendimento dei titoli di stato americani a due anni, i più sensibili alle decisioni della banca centrale americana, sono saliti oltre il 5% vicino ai massimi degli ultimi 25 anni. Il deflatore del Pil, che misura l’inflazione, ha infatti battuto le stime con una crescita del 3,7% (contro attese del 3,4%). Il dato è ancora più significativo perché avviene con un netto rallentamento della crescita.
Il cuore del problema per gli investitori, da sei mesi a questa parte, è la scommessa sul rientro dell’inflazione che, seppure ancora al di sopra del 2%, arriverà prima o poi a quel livello. Ciò che sta emergendo, invece, è che, almeno negli Stati Uniti, riportare l’inflazione al 2% sarà complicato. La decisione della Fed di fermare i rialzi dei tassi ha vissuto della convinzione che fosse stato fatto abbastanza per riportare in tempi ragionevoli i prezzi a una crescita del 2%. Non sembra essere questo il caso; nel frattempo la politica fiscale americana rimane espansiva e il deficit molto al di sopra delle medie storiche.
I mercati hanno continuato a salire perché i tassi reali sono rimasti bassi e continuano a rimanere bassi. Più passa il tempo poi, più si fa strada l’opinione che la Federal Reserve abbia fatto un errore di politica monetaria. Questa è l’opinione, per esempio, del capo economista di Bloomberg, Anna Wong, che mercoledì, prima della pubblicazione dei dati di ieri, metteva “sotto accusa” le parole e la decisione del Presidente della Fed, Powell, a dicembre: “i suoi accenni a tagli dei tassi hanno causato un enorme rally delle azioni e delle obbligazioni”; “Powell sembra riconoscere sempre di più le conseguenze inflattive del suo pivot di dicembre”. I dati di ieri confermano questa tesi. L’andamento dei mercati oltretutto non è neutrale per i prezzi.
L’inflazione stampata a Washington, e il rialzo dei tassi, si espande in Europa e in Asia e trova ad attenderla sistemi che non hanno la valuta di riserva globale, senza risorse energetiche “autarchiche” e senza proiezione geopolitica. Non è solo il caso dell’Europa ma anche del Giappone. Questo ultimo punto è decisivo. L’indebolimento della valuta giapponese, ai minimi sul dollaro dal 1992, espone il Paese asiatico a pressioni inflattive sconosciute negli ultimi trent’anni quando la “globalizzazione” ha disinnescato gli effetti delle politiche espansive delle banche centrali. Oggi lo scenario, rispetto agli ultimi quarant’anni, è irriconoscibile. La domanda che ci si pone è fino a quando il Giappone potrà tollerare il crollo dello yen. È una delle questioni più decisive per i mercati perché i risparmi giapponesi da due generazioni arrivano nel resto del mondo sotto forma di acquisti di obbligazioni statali italiane o americane. Qualsiasi cambio vero della politica monetaria della banca centrale asiatica farebbe sparire dai mercati i risparmi dei giapponesi. La parabola del Paese asiatico testimonia poi quanto sia difficile rimettere in carreggiata un cambio in caduta libera. Oggi nessuno, Stati Uniti in testa, è più disposto a tollerare svalutazioni “competitive”.
Per l’Europa e l’Italia diventa vitale recuperare flessibilità sui prezzi e sui costi riportando i prezzi dell’energia ai livelli precedenti la crisi energetica del 2022. Il rischio, diversamente, è quello di rimanere senza strumenti per navigare una possibile fase prolungata di stagflazione.
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