Più di 300 mila risparmiatori hanno fatto la fila per sottoscrivere le nuove obbligazioni Eni al 4,30%, scadenza 2028. La richiesta complessiva supera i 10 miliardi, cinque volte l’ammontare dell’emissione.
Un grande successo favorito dalle caratteristiche dell’offerta: il taglio “popolare” minimo di 2.000 euro contro i 50-100 mila euro per le emissioni rivolte agli operatori istituzionali; la decisione di rinunciare, in linea con quanto avviene per Btp Italia, a commissioni o spese varie assecondando il gradimento del pubblico per i rendimenti netti; non ultimo, il respiro “verde” dell’operazione, che combina obiettivi ambientali a redditività. Insomma, un successo annunciato che rincuora la “corporate Italia” a pochi giorni dallo scontato aumento dei tassi che verrà deciso la settimana prossima dalla Banca centrale europea, il giorno dopo il rialzo della Fed sui tassi Usa.
Il risultato dell’offerta della principale società di Stato italiana suona in un certo senso come un’eloquente risposta ai dubbi sulla sostenibilità del debito Italia. Non è difficile prevedere, dopo questo risultato, che l’esempio del cane a sei zampe sarà presto seguito da altre aziende a partire dalle principali utility. Ancor prima le banche, favorite dall’aumento dei tassi, aumenteranno la presenza sul mercato obbligazionario, dopo aver ridotto l’esposizione nei confronti di Francoforte sul fronte dei prestiti Tltro.
Si spiega così la cauta fiducia del governatore Ignazio Visco: “Gli allarmi che a volte vengono sollevati sugli effetti che ulteriori aumenti dei tassi ufficiali potrebbero avere sulla nostra economia – ha detto – non sono condivisibili: il nostro Paese è in grado, proseguendo sulla strada già intrapresa delle politiche prudenti e delle riforme, di gestire le conseguenze di una graduale ma necessaria restrizione monetaria” di cui il Governatore parlerà a Milano il prossimo weekend, dopo il confronto tra falchi e colombe a Francoforte.
Ma è giustificato questo clima? Che senso ha il rialzo della Borsa italiana, la più vivace nel 2023 con un rialzo superiore al 10%? Solo speculazione o qualcosa di più? Non si rischia un richiamo drammatico alla realtà sull’onda di una guerra che promette nuove tragedie e costi crescenti per tutti? Di tutto questo dovranno tenere conto i banchieri della Bce, ancor più dei loro colleghi americani.
È probabile che la Fed, preso atto dei progressi sul fronte del carovita, si limiti a un aumento del costo del denaro di un quarto di punto pur ribadendo che altri ritocchi al rialzo saranno necessari entro l’estate e che non si potrà parlare di tagli fino all’inverno. In Europa, i “falchi” del Nord chiedono un aumento di mezzo punto che, tra l’altro, avrà l’effetto di spingere all’insù la quotazione dell’euro e complicare la vita dell’export.
Certo, il calo delle materie prime favorisce il raffreddamento dell’inflazione dalle punte a doppia cifra registrato con l’impennata del gas, ma, come suggeriscono i falchi, sarà in pratica impossibile riportare i prezzi all’obiettivo del 2% senza una recessione, magari modesta e breve ma comunque dolorosa. Un atteggiamento troppo soft, al contrario, rischia di far ripartire la corsa dei prezzi specie nei servizi (dalla sanità ai ristoranti si registra mancanza di personale), mentre cresce la richiesta di nuovi fondi da parte dei Governi e dell’Ue. Meglio una frenata subito indotta da almeno due rialzi dei tassi di mezzo punto nei prossimi mesi.
Ma così il rischio è che i mercati, dopo le performances positive degli ultimi mesi, si trovino a fare i conti con una nuova gelata dell’economia, per giunta alle prese con il calo degli utili provocato dalla recessione. Senza poter disporre, complice la ripresa dei prezzi, a quel punto dell’arma del calo dei tassi. L’eccessiva cautela rischia di far perdere i frutti dei progressi ottenuti nella lotta all’inflazione già emersi con il rialzo delle Borse di gennaio giustificato dal calo del prezzo del gas e delle altre materie prime, oltre che dalla prospettiva della ripresa della Cina. Certo, di qui in avanti per le Borse il gioco si complica perché i mercati devono ancora scontare gli effetti del calo dei profitti (e dei consumi) del 2022.
Ma non è il caso del reddito fisso. Sia in caso di recessione che di “soft landing”, dall’estate in poi il livello dei tassi sarà destinato a scendere con immediati benefici per chi ha investito prima. Per questo gli esperti, una volta tanto, suggeriscono di agire in fretta sul fronte delle obbligazioni, così come ha fatto l'”Eni people”. Dopo un anno disgraziato per le obbligazioni, uno dei peggiori di sempre, si è infatti determinato, si legge in un report di Schroder, “un contesto molto interessante per il reddito fisso dal punto di vista delle valutazioni: una volta che gli operatori di mercato inizieranno a dare meno peso all’inflazione e a confrontarsi con il deterioramento del contesto di crescita, si realizzerà un ottimo potenziale di rendimento in tutti i mercati globali del reddito fisso.
>Ancor più convinto Alessandro Fugnoli di Kairos: “I bond possono e devono essere acquistati subito anche per la riacquistata funzione di copertura rispetto al rischio di una recessione”. Sperando che la Bce sappia accompagnare questo processo e che le aziende di casa nostra siano in grado di fornire al mercato merce buona (e non avariata) nei tempi giusti.
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