Quella che dal marzo 2020 è sembrata – e ad alcuni continua a sembrare – una Grande Paralisi imposta dal Covid allo scacchiere bancassicurativo nazionale, in realtà non lo è stata affatto, al contrario. L’Opas di Intesa Sanpaolo su Ubi è andata in porto, con importanti riflessi anche su Bper (che ha oggi in UnipolSai il suo azionista di riferimento). Cattolica d’Assicurazioni – pericolante secondo Ivass e Consob – è stata prima agganciata da Generali e quindi messa sotto Opa totalitaria. Soprattutto, lo scorso luglio UniCredit – sotto la guida del nuovo amministratore delegato Andrea Orcel – ha accolto l’invito del Mef a progettare un’operazione straordinaria su Mps.



Il gruppo senese, oggetto di un impegnativo salvataggio pubblico cinque anni fa, va riprivatizzato per rispondere agli impegni in sede Ue; e le sue attività – attualmente in condizioni di difficile continuità aziendale – vanno rilanciate in opportuni “format” strategici. Quest’ultima svolta, in particolare, è sembrata chiaramente risentire dell’approdo di Mario Draghi a Palazzo Chigi e dell’ex Dg Bankitalia Daniele Franco al Tesoro, cioè della soluzione di continuità impressa dall’adozione del Pnrr in Italia, nell’ambito della strategia Recovery in Europa.



Le scalate visibili e contemporanee di Leonardo Del Vecchio e Francesco Gaetano Caltagirone a Mediobanca e Generali sono iniziate prima della pandemia e si inseriscono forse solo in parte nel clima di “grandi pulizie” impresso da Draghi – ex governatore Bankitalia e presidente Bce – all’intera Azienda-Italia: nelle sue public policy, ma anche nell’assestamento dei vari comparti privati, soprattutto quelli cruciali come l’industria finanziaria. Da ora al 2027 il Next Generation Eu ricostruito come Recovery Plan deve creare le migliori condizioni infrastrutturali “4.0” (a cominciare dalla digitalizzazione) perché le imprese private – grandi e piccole – si consolidino, riprendano, sviluppino.



Del Vecchio e Caltagirone sono due fra i maggiori tycoon italiani – con respiro internazionale – assieme a poche altre figure: John Elkann e Silvio Berlusconi. Le Generali sono uno dei maggiori gruppi italiani e una multinazionale assicurativa europea tuttora concorrente di colossi come la francese Axa (da cui proviene l’attuale Ceo Generali, Philippe Donnet), la tedesca Allianz, la svizzera Zurich. Il suo assetto proprietario è cristallizzato da quasi mezzo secolo sul ruolo-pivot di Mediobanca, priva tuttavia, da un ventennio, della leadership del fondatore, Enrico Cuccia, e via via emarginata nel ruolo di banca d’affari “centauro” fra pubblico e privato, al centro del grande capitalismo nazionale. Non può sorprendere che Del Vecchio e Caltagirone vedano da tempo nel Leone di Trieste del valore aziendale sempre più inespresso: un gruppo che meriterebbe un’azione imprenditoriale e manageriale più decisa di quella attualmente giustificata dalla continuità inerziale di una Mediobanca invecchiata.

Al di là dell’esito di quella che resta comunque una squisita partita di Borsa (Mediobanca e Generali sono entrambe attaccabili sul mercato), la questione di fondo resta quanto i due “santuari” residui della finanza italiana possano rimanere immuni dal pressing di due finanzieri italo-europei come Del Vecchio e Caltagirone, che hanno un obiettivo preciso e circoscritto: il cambio di Ceo alle Generali.

Draghi – mercatista ortodosso – al momento è silente ed è probabile che lo resterà. Basterà tuttavia un suo battito di ciglia a far intendere il suo “sentiment”. Che – su Mps, dossier dello Stato – è stato comunque inequivocabile: il passato (a Rocca Salimbeni dal 1472) non è un valore assoluto, soprattutto quando diviene problematico. E non c’è nessuna ragione per cui “un passato che non passa” non debba essere mandato in archivio.

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