Dunque nell’eurozona i tassi non scenderanno per almeno “due trimestri”, ha annunciato la presidente della Bce, Christine Lagarde. Intanto, Moody’s ha messo in outlook negativo il rating degli Usa. Entrambe le decisioni difficilmente sono giunte gradite ai Governi – e agli elettorati – sulle due sponde dell’Atlantico. Ma è vero che le tecnocrazie – siano esse un’authority pubblica superstatale come la banca centrale dell’euro o un’agenzia privata apolide al servizio dei mercati – continuano a non venir meno ai loro doveri istituzionali o contrattuali e fanno le loro scelte, nei tempi e nei modi definiti. I Governi nazionali o sovrannazionali, invece, possono sempre scegliere di non decidere e nei fatti continuano a rinviare le decisioni, restando al traino degli eventi.



Così, ancora una volta nel 2023, i tecnici dettano le regole e i politici paiono giocare di rimessa (incassando il diritto tacito di dirsi obbligati dai tecnici ed esonerati dalle responsabilità ultime in capo alla politica). E in tempi di crociate in difesa della civiltà democratica occidentale non appare un grande spettacolo: soprattutto quando – fin dal collasso finanziario del 2008 – il mito della “fine della storia” (cioè della fine della sovranità politica sul binomio globalista mercato/tecnologia) è entrato in crisi progressiva.



Per l’Ue il 2024 sarà un anno di sostanziale recessione: basta la parola dell’ex presidente Bce, Mario Draghi, pochi giorni fa, a preannuncio di un suo atteso rapporto sulla competitività dell’Europa dopo il Covid e la crisi geopolitica. Undici anni fa fu Draghi ad affermare che considerava suo dovere fare “tutto quanto possibile” per salvare l’euro (cioè l’unica reale “Unione Europea”, allora come ora). Bene, quella/questa Europa avrebbe bisogno di tassi più bassi o anche solo di una Bce intonata a farlo. Invece Lagarde è costretta a tenere la guardia alta: l’inflazione (che in un anno e mezzo ha costretto la Bce a portare i tassi da zero al 4%) si è molto raffreddata, ma è sempre pronta a ripartire. La guerra in Ucraina è in stallo e la crisi del gas è stata superata: ma in Medio Oriente è scoppiata una guerra fors’anche più insidiosa e un nuovo choc petrolifero non è affatto da escludere. E poi i Governi dei Ventisette – a 45 giorni dalla scadenza – non hanno ancora trovato un accordo sul ripristino dei parametri di stabilità finanziaria. Una questione non più circoscritta al vecchio dualismo fra Paesi “frugali” al Nord e e “Pigs” indebitati al Sud: oggi la locomotiva Germania è il Paese Ue più confuso e diviso sull’opportunità di aumentare la spesa pubblica (a cominciare da quella militare); la Francia è al palo sulla riforma delle pensioni; l’Italia di Giorgia Meloni – che non ha ancora aderito al Mes – ha di fatto riallineato il suo sistema previdenziale all’austerity del 2011.



Coi tassi alti le uniche che vedono migliorare risultati e prospettive sono le grandi banche: ma questo sembra solo rafforzare il “cinismo istituzionale” della Bce, che vede rilanciarsi solidità e redditività delle sue banche vigilate, pericolosamente premute dalla pandemia. Né Francoforte manca di strizzar l’occhio ai mercati, azionisti delle grandi banche e intermediari dei debiti pubblici. Sugli extra-utili bancari – per la verità – un’autorità politica come il Governo italiano aveva avanzato la proposta di un prelievo fiscale straordinario: ma perfino un leader socialdemocratico come il tedesco Olaf Scholz ha fatto finta di non aver capito.

Non diversamente da Scholz o Emmanuel Macron, anche Joe Biden avrebbe bisogno del massimo della tranquillità e condiscendenza possibile sul versante finanziario. A un anno dalle presidenziali si ritrova con due guerre “americane” aperte, la conflittualità con la Cina in escalation e soprattutto lo spettro di Donald Trump al momento vivo e vegeto. La Casa Bianca ha già dovuto impegnarsi duramente lo scorso giugno per far approvare dal Congresso una discussa autorizzazione a sfondare il tetto all’indebitamento federale. Che alla fine i rissosi repubblicani della Camera gli hanno concesso; e che invece Moody’s – alla revisione ordinaria del rating statunitense – non ha fatto passare sotto silenzio (per quanto l’outlook negativo appaia una sanzione quasi simbolica). Non è detto che l’agenzia di rating – basata nel cuore di Wall Street – abbia fatto un piacere ai grandi investitori: che cominciano per primi a soffrire i tassi mantenuti alti anche dalla Fed. Certamente Moody’s ha lanciato un assist al banchiere centrale Jay Powell: che come la collega europea non ha affatto fretta di mollare la presa anti-inflazione. Si esporrebbe al rischio di ricadute (rovinose per una reputazione già discussa da un paio d’anni), ma soprattutto all’accusa di voler favorire la rielezione di Biden in un’America mai così divisa.

Il presidente “dem”, d’altronde, non può pensare che – se deciderà di correre nuovamente – la sua vittoria fra un anno sarà legata alle mosse della Fed. Gli Usa per primi devono decidere cosa vogliono da se stessi (ad esempio, meno disuguglianze socio-economiche) e dal mondo di cui rimangono leader, ancorché invecchiati e riluttanti (anzitutto: “paci giuste”” in Ucraina e Medio Oriente; e “competizione nella cooperazione” con la Cina). Idem nell’Ue, dove si voterà nel giugno prossimo, cioè durante la – oltremodo comprensibile – fase di “pilota automatico” innescata dalla Bce.

La salute politico-economica dell’Ue non è in ogni una conseguenza dei tassi e – a rigore – neppure dalla maggior prevalenza di forze politiche che solo nel gergo antipolitico e autoreferenziale del legittimismo europeista possono essere definite “anti-democratiche”. I parametri di stabilità fissati più di trent’anni fa a Maastricht possono anche essere lasciati scolpiti nella pietra: ma se discendono da una strategia condivisa. Altrimenti vanno riformulati, anche da zero. Se la transizione verde rimane un driver convincente per una vera recovery europea, una maggioranza europea favorevole (nei diversi organi della nuova Ue post-elezioni) ha il diritto-dovere di consolidarla in piani d’azione e realizzarla. Se invece è una logora bandiera ideologico-elettorale per equilibri di potere superati, va archiviata e sostituita con una nuova strategia energetica imperniata sul rilancio del nucleare e sulla correzione delle tabelle di marcia su auto e case ecologiche. E così via. E non sono scelte cui la politica può sottrarsi, addossandole alle banche centrali o alle agenzie di rating.

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