L’ultimo dibattito tra i candidati democratici americani, mercoledì notte, ha offerto indicazioni interessanti sui contendenti alla “nomination”. Tra meno di due settimane, il 3 marzo, si terranno le primarie democratiche in quindici Stati americani, più “l’estero”, e la corsa entrerà nel vivo. L’interesse comprensibilmente comincia a salire e gli eventuali scivoloni diventano difficilmente recuperabili. Mercoledì, per esempio, Michael Bloomberg ha consegnato agli annali una delle peggiori performance della storia democratica facendo scendere sensibilmente le sue quotazioni. È stata Elizabeth Warren a mettere sulla graticola l’ex sindaco di New York per il trattamento riservato alle donne dentro e fuori la sua azienda. Un tema che ormai quasi 20 anni fa quando Bloomberg era in campagna elettorale nella Grande mela era sicuramente meno sensibile di quanto lo sia ora.
Ricapitoliamo. La campagna dell’ex vice-presidente durante la presidenza Obama, Joe Biden, è collassata nonostante fosse il favorito dopo le vicende legate agli scandali in Ucraina e a una serie di gaffe che non hanno dato l’impressione di una persona al meglio delle sue capacità “psico-fisiche”. Elizabeth Warren, fino a qualche mese fa favorita, è stata sostanzialmente oscurata da Bernie Sanders; l’impressione è che sia percepita come la brutta copia del senatore del Vermont. Rimarrebbe Buttigieg che è sicuramente inesperto e in più ha un curriculum, come consulente a McKinsey, che probabilmente non lo aiuta a entusiasmare le masse popolari. Bloomberg invece nelle ultime settimane era balzato in testa ai sondaggi anche grazie a una campagna elettorale senza limiti di budget. Bloomberg era sicuramente la speranza dei “moderati” di strappare la nomination a Sanders che incredibilmente, sicuramente rispetto a quello che si pensava la scorsa estate, è in testa; nonostante l’età e nonostante le accuse di socialismo. In questi giorni girano video di un giovane Sanders entusiasta per la qualità dei trasporti pubblici dell’Unione sovietica.
Per i mercati la corsa è importante. Bloomberg, Biden e Buttigieg sono sicuramente rassicuranti. Tra i tre a forza di centinaia di milioni di dollari spesi in pubblicità Bloomberg sembrava avere una chance in più. Poi è arrivato il dibattito di mercoledì con il risultato disastroso di cui sopra. Forse Bloomberg riuscirà a risollevarsi, ma a oggi la distanza con il favorito Sanders si è ampliata. Il problema è che Sanders rimane lo spauracchio dei mercati, quello meno prevedibile, quello più eterodosso rispetto a tutti gli altri. Quello più deciso a sperimentare politiche “nuove”. Questo è sicuramente un male per i “mercati” non fosse altro che per l’elemento di incertezza. È già abbastanza singolare che il partito democratico abbia permesso a Bloomberg di tentare un’opa amichevole sulla nomination; non è un segnale confortante a prescindere.
La narrazione vuole che Sanders sia un candidato troppo “estremista” per una campagna presidenziale e che quindi non sarebbe nell’interesse dei democratici una sua nomination. Partiamo dal presupposto che se si votasse domani Trump vincerebbe, ma tra oggi e novembre mancano tanti mesi e la situazione può cambiare. A un certo punto se Sanders ottenesse la nomination i mercati sarebbero obbligati a incorporare, almeno in parte, il rischio. Lo spauracchio e il rischio potrebbero essere sufficienti per una vittoria comoda di Trump, uno scenario conosciuto e quindi poco problematico per gli investitori, ma i tempi sono “volatili” e non si può mai sapere con certezza come va a finire. Per esempio nel 2016 erano davvero in pochi a scommettere sulla sconfitta di Hillary Clinton.