Il 15 maggio a un seminario online con oltre duecento partecipanti, l’Istituto affari internazionali (Iai) ha presentato i risultati di un’indagine dell’Università di Siena sugli aspetti politici e geopolitici della pandemia. In questa sede, ci interessa soprattutto un punto: circa il 70% degli italiani (anche tra coloro che votano per il partito che si dichiara “più europeista”, ossia il Partito democratico) ritengono che “l’Europa” non sia stata all’altezza nell’affrontare la crisi innescata dal virus e nel venire incontro ai Paesi più colpiti come il nostro. Lo studio tratteggia gli italiani come “sospesi, sconcertati e sbandati” che “si stringono attorno alla bandiera”, le istituzioni nazionali, e anche per questo motivo guardano con sospetto all’“Europa”, etichetta in cui includono sia istituzioni comunitarie – come la Commissione europea, il Parlamento europeo e la Banca centrale europea -, sia organi intergovernativi – come i Consigli dei ministri declinati in vari modi e il Consiglio europeo dei Capi di Stato e di Governo). Questa conclusione del sondaggio mostra che le istituzioni europee e i partiti, i movimenti, e gli stessi organi d’informazione che si dichiarano maggiormente “europeisti” non hanno fatto, almeno in questi mesi, un’efficace opera di comunicazione.
È bene partire da questo punto dello studio per giustapporre velocemente cosa ha fatto, e sta facendo, “l’Europa” e cosa l’Italia per uscire dalla pandemia e rimettere in moto la macchina della ripresa.
In primo luogo, mentre a fronte della crisi finanziaria del 2008-2009, “l’Europa” impiegò quattro anni – in effetti sino al probabile default della Grecia – per mettere in atto strumenti per fronteggiare l’emergenza (il Fondo salva-Stati da cui è nato il Meccanismo europeo di stabilità) – questa volta ha proposto, nel giro di quattro settimane, un tridente per delineare (e in gran misura mettere in atto) gli strumenti per affrontare i tre aspetti cruciali della crisi.
Sotto il profilo finanziario, la Bce ha varato programmi speciali (di cui l’Italia è, sinora, il maggior beneficiario) per fornire liquidità e calmierare i mercati. Sotto il profilo sociale, è stato definito il programma Sure, una grande innovazione che per la prima volta in circa settanta anni d’integrazione europea dà corpo a una politica sociale europea, e si è approntato lo sportello sanitario del Mes che deroga a gran parte delle regole del Mes medesimo proprio per sostenere il riassetto e l’ammodernamento della sanità. Sotto il profilo dell’economia reale, sinora è stata sospesa (in gran parte) la disciplina degli aiuti di Stato (al fine di permettere l’intervento pubblico in comparti e aziende maggiormente colpiti dalla pandemia), si è attivato un nuovo canale di finanziamento della Banca europea per gli investimenti a favore delle piccole e medie imprese e si sta operando alla messa a punto di un vasto Recovery Fund per finanziare la ripresa. Il totale degli interventi si profila tra i 1.500 e 2.000 miliardi di euro e dipende, per una stima accurata, dall’accordo che si raggiungerà sulle dimensioni e sulle modalità operative del Recovery Fund.
Rispetto a questo tridente, l’Italia ha fatto piuttosto poco: un diluvio di decreti con numerose norme particolaristiche (ad esempio, dei 55 miliardi previsti dal decreto “Rilancio”, non ancora andato in Gazzetta Ufficiale, ben 3 sono destinati all’Alitalia) e con provvedimenti a carattere “risarcitorio” (come chiamati dal giudice emerito della Corte costituzionale Sabino Cassese) per le famiglie e i comparti maggiormente danneggiati dal lockdown messo in atto per contrastare la pandemia. Il programma prevede poi una discutibile e discussa garanzia per 6,3 miliardi a un prestito alla Fca, azienda automobilistica con sede in Olanda.
Il decreto non prevede un serio snellimento delle procedure per far sì che i finanziamenti giungano tempestivamente ai destinatari. Le misure adottate non contengono nulla per la ripresa. Essa richiede o riduzioni delle imposte o investimenti pubblici o un mix di ambedue. È arduo vedere cosa potrà essere previsto e attuato a fronte di un debito della Pubblica amministrazione che nel 2021 rischia di superare il 170% del Pil e di richiedere interventi, necessariamente “europei”, per calmierare i mercati internazionali.
L’Italia, inoltre, non ha ancora deciso se utilizzare i 36 miliardi dello sportello sanitario del Mes: il 16 maggio un editoriale dell’Istituto Bruno Leoni poneva la domanda Se non noi, chi?, a ragione delle esigenze di finanziamento del nostro sistema sanitario e dei forti risparmi che comporta l’accesso al Mes. L’Italia è, poi, in polemica con numerosi altri Stati dell’Unione Europea sulla piega che sta prendendo il Recovery Fund. In breve, l’Italia e altri Stati dell’Europa meridionale vorrebbero un Fund alimentato dalla Commissione europea (tramite sia il raddoppio del proprio bilancio settennale a carico di tutti gli Stati membri, sia l’emissione di obbligazioni sul mercato internazionale) che conceda, in gran misura, sovvenzioni a fondo perduto agli Stati più colpiti dalla pandemia e in più complicata situazione economico-finanziaria. Gli Stati dell’Europa settentrionale hanno una visione contraria (e la Germania federale ha, a riguardo, anche vincoli costituzionali): si oppongono a un’Ue che diventi una transfer union a beneficio di Stati i quali, a ragione o a torto, sono considerati dai loro elettori come poco attenti sia ai conti pubblici, sia alle politiche di crescita. Il “decretone” viene letto come ultima indicazione, in senso temporale, di questa lettura dell’Italia e delle sue vicende (e richieste).
Le polemiche in Europa sul costituendo Recovery Fund rischiano di ritardare la messa a punto dello strumento e di non facilitare modalità operative che diano spazio a sovvenzioni a fondo perduto. A chi giovano?