Si moltiplicano le voci a favore del lancio di un “prestito nazionale” in funzione anti-depressiva nell’emergenza economica post-coronavirus. Dopo una prima proposta mediatica da parte di Ferruccio De Bortoli, l’ipotesi è stata articolata da Mario Monti e Giulio Tremonti e ripresa da Giovanni Bazoli, che ha addirittura quantificato un’operazione da 300 miliardi. Il pre-endorsement più istituzionalmente rilevante è giunto tuttavia, venerdì scorso, da Alberto Misiani, viceministro dem  al Mef. “Dovremmo fare uno sforzo importante per mobilitare le risorse ferme: ci sono 1.400 miliardi fermi sui conti correnti e depositi delle famiglie, che sono rimasti lì per anni per prudenza, bisogna farglieli investire e trovare tutti i canali per rafforzare il sistema produttivo”, ha detto Misiani, che ha escluso forme di imposizione patrimoniale e prospettato invece “un’emissione di titoli a lunghissimo periodo, con un’alleanza tra risparmiatori, Stato e sistema produttivo per raccogliere risorse per il rilancio del Paese”.  



Fin dal suo aprirsi, il confronto sul “prestito patriottico” è stato commentato sul Sussidiario con accenti di cautela. Le riserve sono state – e restano – anzitutto di metodo. Per quanto temperata da vaghe ipotesi  di “volontarietà”, la prospettiva del ritorno a forme di dirigismo autarchico (“sovranista”) nel mercato del risparmio profila di per sé una contro-rivoluzione copernicana rispetto a un trentennio caratterizzato da liberalizzazioni, privatizzazioni e centralità dei mercati finanziari globalizzati. Re-introdurre in corsa uno strumento tratto da una cassetta di attrezzi mandata da decenni nella discarica politico-culturale e sostituita con un armamentario antitetico è  sempre un’operazione pericolosa. E il fatto che a sostenere per primi la necessità di una drammatica inversione a U vi siano state figure come ad esempio Mario Monti – che hanno segnato in modo indelebile quella stagione sul piano intellettuale prima ancora che di governo –  non fa che accrescere perplessità e preoccupazioni.



Misiani, per la verità. non appartiene a quella corrente di pensiero. Come lo stesso ministro Roberto Gualtieri è di formazione marxista e la sua scuola economica è semmai quella di Vincenzo Visco, più volte ministro delle Finanze e Tesoro nei governi Prodi, D’Alema e Amato. Uno statalista ortodosso, Visco, ma in  quanto tale niente affatto a disagio nell’approccio di Carlo Azeglio Ciampi all’euro, fondamentalmente rigorista su moneta e finanza pubblica. Neppure il format del prestito nazionale si presenta incoerente con quelle radici culturali, anzi: collocare sul tavolo il “prestitone” in alternativa a un prelievo patrimoniale segnala già un’evoluzione concettuale (Bill Sanders è tuttora in corsa per la Casa Bianca con un programma fiscale punitivo verso alti redditi e grandi patrimoni). Certo, una valutazione di merito del progetto richiede ancora l’esplicitazione di tutti i dettagli: tecnici e politico-finanziari.  



Fra quelli puntuali, il primo e più importante interrogativo riguarda la misura effettiva della “volontarietà” dell’adesione a una futura offerta di “Btp  speciali”. Una seconda questione concerne sicuramente la tecnicalità di un piano di rendita sostanzialmente “perpetua” (“irredimibile”): anzitutto sul fronte della protezione contro l’inflazione. Un tema collegato (già emerso in passato) è il potenziale utilizzo dei Btp speciali come strumento di pagamento della Pa (ad esempio per i Trattamenti di fine rapporto per i dipendenti pubblici o per saldo di debiti erariali di varia natura). A maggior ragione sembra porsi il problema dell’eventuale negoziabilità dei titoli su qualche piattaforma di mercato.

Tutti da esplorare restano naturalmente i versanti più strutturali, di politica finanziaria e creditizia. Anzitutto: una grande manovra di finanza straordinaria (patrimoniale e/o prestito) era già stata ventilata e tratteggiata al fine di tagliare il debito pubblico per riavvicinare la normalità dei parametri Ue. Ma non è mancato chi – ad esempio nel mondo cattolico, nella sinistra antagonista o in settori dello stesso M5S – continua a guardare a un intervento straordinario in chiave di resdistribuzione utile a chiudere un gap epocale di diseguaglianze socioeconomiche. La “madre di tutte le manovre” si propone ora come super-stimolo a una ripresa che manca da un decennio.

Quali impatti avrebbe comunque sulla struttura del sistema finanziario la “chiamata diretta” del risparmio privato delle famiglie verso nuovo debito pubblico (o, prevedibilmente, verso passività della Cassa depositi e prestiti)?  Perché prospettare un grosso “prelievo”  statale dai depositi presso banche che dovranno prevedibilmente far fronte a indebolimenti della qualità dei loro attivi creditizi? Senza contare che il risparmio finanziario delle famiglie italiane è investito stabilmente anche in strumenti di asset management, cioè nell’offerta di capitali di mercato per le imprese.

Il quesito problematico posto all’inizio di questa riflessione sembra tuttavia rimanere di primo impegno. Una politica di “prestiti nazionali”  lanciati e poi direttamente intermediati dallo Stato in via semi-dirigistica sembra invertire bruscamente la rotta opposta di una lunga stagione finanziaria connotata da privatizzazioni, liberalizzazioni, centralità dei mercati globalizzati. In nome di questa dinamica di lungo periodo l’Italia ha fra l’altro ridimensionato di molto il monopolio bancocentrico sul suo ricco giacimento di risparmio privato, storicamente uno dei più solidi del pianeta. Ora lo Stato sembra voler restaurare in tutta fretta un sistema finanziario “sovrano” che l’Italia ha peraltro conosciuto a lungo: quello in cui anche le banche erano per larga parte di di proprietà pubblica, offrivano (virtualmente non in concorrenza) solo proprie passività dirette oppure collocavano passività dello Stato, per le quali esse stesse erano soggette a vincolo di portafoglio, mentre i risparmiatori non potevano affacciarsi sui mercati internazionali.

Può darsi che non vi sia alternativa a questa “riconversione” precipitosa: che di per sé segnalerebbe la fine dell’europeismo reale e ideologico in Italia. E che in ogni caso non sembra poter essere attuato con decreti ministeriali. 

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