Vedere in quello che sta accadendo a Hong Kong solo un problema di ordine pubblico è un grave errore di prospettiva. Nell’ex colonia britannica, dove i cortei ignorano i divieti e milioni di persone si preparano allo sciopero generale del 5 agosto, non si gioca solo il futuro della Cina. “Si è costruita una crescente classe di persone che come i proletari di Marx sente di non avere niente da perdere. È pericolosissimo” dice al Sussidiario Francesco Sisci, sinologo, giornalista, prima corrispondente e poi editorialista di Asia Times, La Stampa e Il Sole 24 Ore. Per Sisci ne può scaturire una crisi mondiale.



“La questione di fondo, per ricordarcela, è che la società di Hong Kong è polarizzata tra molto ricchi e gente comune con sempre meno possibilità di cambiare la propria situazione sociale. Un gruppo minuscolo di grandi ricchi monopolizza praticamente tutte le risorse e il potere con l’appoggio di Pechino. La gente comune ha pochissime speranze di mutare la propria condizione. E nemmeno ci sono speranze reali di cambiare il governo attraverso elezioni democratiche, quindi una fascia crescente di disperati protesta a partire dal tentativo di approvare la legge sull’estradizione”.



Come si è arrivati a questo punto?

Questi problemi sono evidenti da anni, erano manifesti già durante le proteste degli ombrelli del 2014 ma non sono stati risolti, sono stati solo affrontati con palliativi che hanno semplicemente spostato il problema in avanti, aggravandolo.

E la gente sente di essere stata ingannata.

Esatto. Si è gonfiata ormai una marea di proteste che sta prendendo una dinamica propria. La prossima prova di forza sarà il 5 agosto, quando è stato proclamato lo sciopero generale.

Il governo cinese?

Fa sapere di avere le truppe pronte a intervenire oltre il confine. Ieri il Jiefangjun Ribao, il quotidiano dell’esercito, titolava un violento commento: “La realizzazione della completa riunificazione della patria è un grande compito storico non ostacolabile”. Un’allusione alla situazione di Hong Kong, dove, secondo Pechino, i taiwanesi soffiano sul fuoco.



In che modo c’entra Taiwan?

Rappresenta un allargamento del fronte, poiché Pechino ha proibito i viaggi singoli dei cinesi a Taiwan. I cinesi potranno andare a Taiwan solo con viaggi di gruppo o ufficiali. È un segnale all’isola, di fatto indipendente, ma formalmente parte di un’unica Cina.

Pechino ha una strategia di fronte a quello che sta accadendo?

Pechino per ora ha un’urgenza immediata: ristabilire l’ordine e impedire che la situazione sfugga completamente al controllo. Per questo parla con i dimostranti, ma intanto lascia sentire il tintinnare di sciabole. Ma ahimè, ormai non è più il tempo di queste misure. Difficile dire cosa sarebbe opportuno fare per Pechino. Di certo siamo nella situazione ben descritta con un detto cinese: “la malattia arriva come una montagna che crolla, la malattia si cura come si tira un filo di seta”, che è lunghissimo e fragilissimo. Cioè ci sono profondissime questioni di lungo termine che andrebbero affrontate.

C’è da dire che questa “malattia” di Hong Kong arriva in un momento molto complicato per la Cina.

Sì. La Cina è sempre più isolata, dal mondo occidentale almeno, e la “narrativa” ha preso una dinamica propria, non gestibile da alcun governo. A ciò si somma la riapertura delle trattative sul commercio tra Cina e Usa, ma le prospettive di un accordo paiono minime.

Lei ci aveva già detto che con le sorti di Hong Kong incerte i capitali si stanno trasferendo altrove. Che cosa potrebbe riservarci il breve termine?

È difficile fare previsioni. Ma un qualunque hedge fund nel mondo oggi potrebbe con qualche certezza scommettere contro la Borsa di Hong Kong. C’è odore di recessione globale nell’aria, ed è possibile ipotizzare un crollo di questa Borsa che è la terza del mondo.

Con evidenti impatti sull’economia e la politica europea e americana.

Il presidente americano Donald Trump finora vorrebbe un accordo commerciale con la Cina che ridia fiducia all’economia di casa e gli faccia affrontare le lezioni del 2020 con l’economia in crescita. Ma davanti a questa situazione potrebbe dovere rifare i calcoli.

In che senso?

Le sorti di Hong Kong potrebbero essere decisive per le presidenziali americane. I democratici avrebbero interesse ad andare al voto con l’economia in piena recessione. Non dimentichiamo che Bush padre, che aveva vinto l’Urss e iniziato a dare un nuovo ordine al Medio Oriente con la prima guerra del Golfo, fu sconfitto perché negli ultimi mesi l’economia si inceppò e lui dovette alzare le tasse.

E Trump ha promesso molto.

Appunto. Se a causa di una crisi finanziaria a Hong Kong l’economia si ferma nell’ultimo anno, le prospettive di una sua rielezione possono anche svanire. D’altro canto se le cose a Hong Kong andassero davvero male, Trump potrebbe cambiare narrazione, incolpando Pechino per tutti i guai che subiranno gli Usa. Non c’è nulla di chiaro, al momento, ma la partita è già gigantesca.

Quali sarebbero le ripercussioni per l’Europa e l’Italia di una crisi a Hong Kong?

Se in agosto le cose precipitassero, l’effetto domino globale sarebbe immediato. L’economia italiana è la più fragile delle grandi economie, e potrebbe essere una delle prime a saltare.

(Federico Ferraù)