La rivoluzione finanziaria avviata nel 1971 con la fine del “Gold exchange standard”, che vincolava la stampa della carta moneta a un vincolo sottostante reale come l’oro, consentì di stampare carta moneta all’infinito, slegata da un sottostante reale. L’economia, da scienza sociale basata sull’emozionalità dell’uomo, diventava innaturalmente scienza esatta, basata su numeri astratti slegati dal reale, contro la realtà, ma in funzione di interessi superiori; e contro la scienza la finanza diventava razionale. Lucas, premio Nobel nel 1974, affermava in modo incontrovertibile che i mercati finanziari sono razionali e non sbagliano mai nell’allocazione delle ricchezze; così perfino la bolla speculativa ed emozionale di Lehman diventò solo un incidente di percorso.
Il cammino senza ostacoli della finanza ha radicalmente cambiato la modalità di accumulazione della ricchezza e della sua distribuzione: fino al 1971 il quintile più povero negli Usa cresceva più del quintile più ricco; dopo, la rivoluzione finanziaria ha consentito di creare la maggiore concentrazione di ricchezza della storia e quindi ha insediato al potere una plutocrazia che a sua volta ha lasciato il posto al totalitarismo finanziario, non meno pericoloso e non meno antidemocratico di quello politico e di quello militare, che in forme diverse consentono agli interessi di pochi di determinare e influenzare la vita di tutti.
I padri costituenti avevano già allora ben chiaro il dramma della concentrazione della ricchezza, come scriveva Thomas Jefferson, terzo presidente degli Stati Uniti, principale autore della Dichiarazione di indipendenza e presente sul monte Rushmore accanto a George Washington, Abraham Lincoln e Theodore Roosevelt: “Io credo che le istituzioni bancarie siano più pericolose per le nostre libertà di quanto non lo siano gli eserciti permanenti. Se il popolo americano permetterà mai alle banche private di controllare l’emissione del denaro, dapprima attraverso l’inflazione e poi con la deflazione, le banche e le compagnie che nasceranno intorno alle banche priveranno il popolo dei suoi beni finché i loro figli si ritroveranno senza neanche una casa sul continente che i loro padri hanno conquistato”.
La plutocrazia negli Stati Uniti ha cominciato la sua corsa a ridosso della rivoluzione finanziaria. Osservando il periodo 1989-2021 (dalla pagina web del Consiglio dei Governatori della Fed) e dividendo in cinque quintili la popolazione americana dal più ricco al più povero, la dinamica della crescita ha contribuito alla concentrazione di ricchezza verso l’alto nella scala retributiva. Il 20% più ricco è passato dall’avere il 60,7% della ricchezza totale nel 1989 al 70,6% del 2021, mentre il quintile più povero è passato dal 2,89% del totale nel 1989 al 2,75% del 2021. In altri termini, il 20% del quintile più ricco possiede il 70,6% della ricchezza totale, mentre i restanti quattro quintili possiedono il 29,4% della ricchezza. All’interno del primo quintile più ricco possiamo vedere come l’1% della classe al top passa dall’avere il 17,2% del 1989 al 27% del 2021.
È evidente come all’interno dei quintili ci sia un’ulteriore frammentazione, così si può vedere come nel quintile più povero la fascia più bassa è infinitamente più bassa della parte alta dello stesso quintile. È l’America profonda dei senzatetto, delle tendopoli, dei drogati, dei senza fissa dimora, dei disoccupati. Le due realtà così profondamente lontane sono l’espressione di una concentrazione di ricchezza che non ha precedenti nella storia e rappresenta un sistema plutocratico ben lontano dalla tanto ipocritamente declamata democrazia.
Lo spazio temporale 1989-2021 non è casuale, ma indicativo del percorso della cultura finanziaria tra accademia, politica e finanza. Nel 1989 abbiamo la caduta del Muro di Berlino, che segna una nuova storia e lascia libertà ai vincitori di imporre le loro regole, specie nell’economia e nella finanza, che prende il primo premio Nobel nel 1990 con Markovitz. Nel 1994 la finanza diventa razionale con Lucas, che ne fa una verità incontrovertibile, e alla fine del secolo, nel 1999, l’abrogazione del Glass-Steagall Act, attuata da Roosevelt per disciplinare la finanza, apre a quest’ultima campi sterminati, in cui tutti prodotti finanziari sono liberi di correre senza limiti, promuovendo un totalitarismo finanziario non dissimile da tutti gli altri nei quali la democrazia è un’illustre sconosciuta.
L’esercizio del potere a tutti i livelli rimane nella sfera decisionale di un ristretto numero di miliardari che controllano e determinano tutti i processi decisionali del Paese, in una logica di stretto interesse del gruppo plutocratico, che ha una ricchezza simile a quella di tutta l’Europa messa insieme. Le politiche estere sono influenzate da loro, così come le proposte presentate al Congresso, dove l’80% degli americani non viene rappresentato, e determinano anche quelle dei Paesi collegati e subordinati, privandoli di una loro reale governabilità.
La concentrazione di ricchezza in questo modo ha consentito di costituire un senato virtuale che sta sopra l’ordine di tutti i Paesi con le eccezioni delle economie crescenti come la Cina e i paesi Brics, un senato non democraticamente eletto, il cui bene da perseguire non è quello comune, ma l’interesse interno al loro sistema, che diventa un bene assoluto. Abbiamo infranto il senso e la speranza di democrazia dichiarata come una foglia di fico.
La finanza non regolata diventa così una forma di totalitarismo non dissimile da quelli che drammaticamente vediamo ogni giorno e di cui siamo prigionieri fisicamente e culturalmente. Forse prenderne atto potrebbe consentirci di provare a costruire una società più giusta, in cui la disuguaglianza non sia la morte di troppi che, visti come danni collaterali, in tutto il mondo soffrono e muoiono.
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