Dice un proverbio (credo) arabo: è l’ultima pagliuzza quella che spezza la schiena del cammello. Al pari, può essere l’ultimo rialzo dei tassi, magari il più leggero. quello che avvia una recessione. Il rischio c’è, a giudicare dalla reazione dei mercati alla notizia che, dopo dieci rialzi di fila del costo del denaro, la Fed ha deciso che, pur in presenza della mala pianta dell’inflazione, la stretta può bastare. Ma l’annuncio, lungi dal rasserenare i mercati, ha coinciso con la conferma che la crisi del sistema delle banche regionali americane, la colonna vertebrale che sostiene il mercato immobiliare e gli impieghi per le medie imprese, è assai più grave di quanto immaginato poche settimane fa, quando il Tesoro diede il via al salvataggio dei conti correnti della Silicon Valley Bank.
Sembrava un episodio isolato o quasi. Al contrario, nonostante l’interessato sostegno ai salvataggi di JP Morgan, che ha fatto il pieno di clienti danarosi tra New York e la California, la crisi si allarga: il rapido rialzo dei tassi, mai così brusco da 40 anni, ha sconvolto gli equilibri di banche tutt’altro che piccole che negli anni del denaro a costo zero o quasi sono andati a caccia di clienti ricchi offrendo mutui ipervantaggiosi. Ora si tratta di riparare il giocattolo, cosa non facile, con i tassi sul mercato monetario al 5% e gli interessi sul conto corrente a zero. Ma non impossibile, se la crescita dell’occupazione e dei consumi continuerà ai livelli dei mesi passati e si riuscirà a fare scendere l’inflazione velocemente, in modo da avviare un ciclo di ribassi dei tassi.
La congiuntura americana precede temporalmente quanto accade nell’Eurozona. Anche la Bce, pur in ritardo e con molte remore, si muove verso la fine della stagione del rialzo dei tassi, nonostante l’inflazione si confermi più ostinata che mai, peraltro indomita nonostante il tracollo dei prezzi dell’energia già considerati la causa principale dell’impennata dei prezzi. Di qui la scelta, all’unanimità, della Bce di aumentare i tassi, ma solo di un quarto di punto, mossa da ripetere a giugno e a settembre. Allora, si spera, la marcia dei rialzi potrà dirsi conclusa.
Attenzione, però, all’ultima pagliuzza, la più insidiosa, che i falchi di Francoforte hanno imposto al direttorio di Francoforte: i reinvestimenti nei titoli in portafoglio della linea App (148 miliardi in scadenza nei prossimi sei mesi) saranno azzerati a partire da luglio. In concreto, questo vuol dire che la Bce non procederà più ad acquisti di titoli per 25 miliardi di euro al mese. Non solo. Christine Lagarde non ha fornito alcuna indicazione in merito alla scadenza di fine giugno del Tltro. Ci sarà un prestito-ponte per ridurre l’impatto del rientro sulle banche? Oppure il sistema del credito dovrà affrontare una valanga che, a detta di uno studio di Société Generale, potrebbe seppellire le banche italiane? Salvo colpi di scena ormai improbabili, gli istituti nei prossimi mesi dovranno continuare a restituire i prestiti ottenuti dalla Bce nel corso delle crisi degli anni passati. Il volume di quei prestiti supera il livello della “liquidità in eccesso” di cui ora dispongono e questo potrebbe mettere sotto pressione sia il costo della raccolta, sia l’offerta di credito per l’economia.
L’ultima pagliuzza, insomma, sta per arrivare in tempo per garantire un’estate ad alta tensione. Ma, per paradosso, questo potrebbe obbligare la Bce a frenare gli ultimi aumenti, i più pericolosi. Il calo dell’energia assieme alla ripresa dell’import cinese (vedi il lusso) offre del resto un margine di miglioramento delle ragioni di scambio che spiega la buona performance delle borse del Vecchio continente.
In sostanza, le economie hanno superato lo scoglio dell’ascesa dei tassi. Non sono mancate le ferite, ma le cose sono andate meglio del previsto. Purtroppo, però, non è il caso di festeggiare: l’inflazione resta oltre i livelli di guardia e ci resterà ancora per un bel po’. Per stroncarla sarebbe necessario inasprire ancora le condizioni del credito, come probabilmente non possono più permettersi i mercati Usa alla vigilia di un anno elettorale. O tantomeno l’economia europea. Ma non si possono però allentare i cordoni delle borse in una situazione che resta ad alto rischio, in mezzo a tensioni geopolitiche sempre più complesse. Di qui la sensazione che, a differenza di quanto accadde in passato, la fine del rialzo dei tassi non farà ripartire la crescita: per ragioni diverse, Usa ed Ue sono condannati a procedere al trotto.
Per l’Italia, al solito, gli esami non finiscono mai. Moody’s ha già annunciato che tra due settimane prenderà in considerazione una riduzione del rating che porterebbe il giudizio sui titoli italiani a un livello di allarme, specie dopo la stretta di ieri. Una nuvola che mette a rischio un quadro che si è rivelato finora più solido del previsto: l’economia italiana ha tenuto, lo spread rimane sotto controllo grazie al ritorno di interesse dei risparmiatori su Bot e Btp. Anche l’inflazione ha qualche effetto benefico sul rapporto tra debito e Pil e i tassi reali restano bassi. Ma non è l’ora di far festa: il debito pubblico è sostenibile solo se si continua a crescere. Cosa non facile, visti i limiti di salari e stipendi che comprimono la domanda interna.
Non ci resta che far affidamento sugli acquisti nel lusso dei cinesi, stremati dalla lunga stagione del Covid, o sulle maggiori spese degli statali tedeschi che hanno siglato un ricco contratto di lavoro (+12,5% in due anni). Alla faccia dei falchi che guardano solo alle cicale italiane.
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