La settimana scorsa si è chiusa con due importanti appuntamenti “europei” per l’Italia: la riunione a Francoforte del Consiglio direttivo della Banca centrale europea l’8 settembre e la sessione “straordinaria” del Consiglio dei ministri dell’Energia a Bruxelles il 9 settembre. “Straordinaria” – si tenga presente – non solo perché siamo entrati in un’economia di guerra, in cui il gas (e l’energia in generale) è diventato un’arma importante, ma anche perché, sotto il profilo formale, l’energia non rientra tra quelle che, in gergo, vengono chiamate le “politiche comunitarie”.
La riunione del Consiglio della Bce si è conclusa senza grandi sorprese: l’aumento dei tassi era stato in gran parte anticipato da autorevoli componenti dell’Esecutivo dell’istituzione già poche settimane prima in occasione del simposio di Jackson Hole. Con un’inflazione al 9,1% l’anno nell’eurozona, era difficile, per i paesi mediterranei in generale (e per l’Italia in particolare) opporre argomenti validi contro l’aumento dei tassi. Tuttavia, da oltre tre mesi, nell’eurozona non si parla d’altro che dello “scudo anti-spread”, che la Bce dovrebbe attivare per proteggere i paesi finanziariamente più deboli dalle ripercussioni negative che potrebbero essere generate dallo stop agli acquisti dei titoli di Stato.
Non è stato neanche chiarito cosa farà la Bce dei titoli (in gran misura italiani) che, utilizzando varie forme di Quantitative easing, ha acquistato in questi anni. Li terrà chiusi in cassaforte o li riverserà sul mercato?
La domanda non è banale, perché dalla risposta dipende se l’aumento dei tassi verrà accompagnato da altre misure di restrizione della liquidità in una fase in cui ci sono segni sempre più evidenti di una recessione che potrebbe travolgere tutti i Paesi europei e arrecare danni simili, se non maggiori, a quelli della seconda metà degli anni Settanta, poiché in questo caso alla stretta anti-inflazionistica della politica monetaria si aggiungerebbero la crescita dei costi e le difficoltà logistiche provocate dall’aggressione della Federazione Russa all’Ucraina.
I paesi mediterranei avrebbero dovuto, su questi due punti, ottenere maggiori informazioni e ricordare che in una prima fase la Bce ha sottovalutato il pericolo dell’inflazione. La credibilità dell’istituto verrebbe minata se risultasse, ex post, che in questa fase stia sottovalutando il rischio di una lunga e profonda recessione con chiusura di aziende e aumento della disoccupazione.
La riunione dei ministri dell’Energia ha riguardato un eventuale “tetto” al prezzo del gas, in particolare a quello importato dalla Federazione russa. È stato un incontro interlocutorio. Entro il 15 ottobre la Commissione europea si è impegnata a presentare un “documento di strategia” da esaminare in una riunione dei ministri dell’Energia dei 27 tra un paio di settimane e poi da portare al Consiglio dei capi di Stato e di governo dell’Unione Europea.
I resoconti da Bruxelles hanno posto l’accento sulle differenze tra paesi dell’Ue a ragione a) della dipendenza o meno del gas russo e b) dei legami passati (e forse futuri) con la Federazione Russa. A mio avviso, questi non sono i nodi centrali del problema. Lo sono, invece, a) la trasparenza dei contratti e b) la durata programmata dell’eventuale “tetto”.
In primo luogo, per ragioni di riservatezza, i contratti in materia di gas tra i singoli Paesi dell’Ue e la Federazione Russa sono semi-secretati, ossia non vengono comunicati alla Commissione europea e alla sua Direzione Generale per la Statistica (Eurostat).
Un’inchiesta giornalistica di questi giorni ha rilevato che i contratti della Repubblica federale russa e di Gazprom con la Germania prevedono prezzi molto più bassi di quelli stipulati da Mosca con altri Stati Ue. Ciò ha effetti su tutti quei settori della produzione industriale ad alto impiego di energia, provoca distorsioni nel funzionamento del mercato unico e ha posto praticamente Berlino (con poca diversificazione delle fonti di approvvigionamento) sotto ricatto di Mosca.
Il problema è serio e, piaccia o non piaccia alla Federazione russa, l’Ue deve, e può, risolverlo al più presto, Se non altro perché è in ballo il funzionamento del mercato unico.
Il secondo luogo, “tetti” ai prezzi sono tipiche misure da economia di guerra, da rimuovere (per tornare al funzionamento del mercato non appena sia possibile). Nella fretta di agire di fronte al disagio di famiglie e imprese, i governi dell’Ue (e la Commissione europea) non devono dimenticare buon senso e prudenza economica. Sarebbe preferibile un programma di assistenza alle famiglie e alle imprese davvero in sofferenza.
Se si opta per il “tetto”, auguriamoci che sia temporaneo e non tale da provocare distorsioni di medio e lungo periodo.
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