Il governatore della Bank of England, Mark Carney, è uscente due volte. Il suo incarico è in scadenza nel gennaio 2020 ed entro quella data – secondo i propositi del premier britannico Boris Johnson – la Brexit sarà cosa fatta. Eppure è stato il banchiere centrale della sterlina – il più antico anche se oggi non il più potente – a giocare da protagonista al summit estivo di Jackson Hole.



Non ha potuto esserlo l’ospite, Jay Powell (il seminario è tradizionalmente organizzato dalla Fed di Kansas City). Il banchiere del dollaro è sì intervenuto alla fine della due giorni, ma è stato obbligato sulla difensiva. Ha dovuto limitarsi a rimarcare che la Fed non è responsabile del movimentismo del presidente Trump su tutti i fronti del commercio internazionale. È stata l’unica maniera per parare i violenti attacchi personali della Casa Bianca contro le incertezze di Powell nell’ammorbidire la politica monetaria  a un anno dalle presidenziali Usa.



Non è neppure volato in Wyoming Mario Draghi, che fra due mesi cederà il timone della Bce alla francese Christine Lagarde. Il titolo – per i media finanziari – lo ha dato invece Carney, banchiere dal doppio passaporto: inglese e canadese, un cittadino di quel vecchio Commonwealth cui molti in Gran Bretagna guardano come approdo di una Brexit che si annuncia comunque hard. Ed è questa, indubitabilmente, la prima chiave di lettura della proposta di Carney: creare una super-moneta globale.

Carney non ha avuto timore di articolare l’ipotesi in chiave provocatoria, più politica che tecnica. Occorre superare l’egemonia del dollaro sui mercati globali – ha detto – ma anche contrastare i rischi dell’ascesa del renminbi cinese: valuta di un sistema non integrato nell’economia mondiale di mercato e comunque in grado di creare con il dollaro un duopolio instabile, non meno pericoloso del monopolio più o meno esteso del dollaro.



È stato evidente, anzitutto, l’assist alla Fed nella critica più o meno esplicita all’“America first” di Trump: che pretende di assoggettare anche la valuta nazionale (che è anche “moneta del mondo”) a strategie unilaterali di guerra commerciale. Ma è percepibile anche l’ansia della Bank of England – cioè dell’establishment della City – di contenere le spinte “disruptive” che sono maturate a Londra sulle vie accidentate della Brexit.

City e Wall Street si ritrovano – per molti versi e contemporaneamente – “straniere in casa”: domiciliate presso due sistemi-Paese formalmente sovrani sulle valute che sono materia prima dei mercati; e sempre più ostili all’industria finanziaria globalizzata che ha tuttora i suoi cardini principali a Londra e New York. Nessuna sorpresa se i banchieri centrali – presi direttamente di mira dai poteri politici nazionali – reagiscono proponendo una de-sovranizzazione della moneta (a Londra e dintorni si vanno intanto moltiplicando rumor su un riassetto proprietario che “apolidizzi” il Lse dopo Brexit).

Mentre si attendono le prime reazioni da parte dell’eurozona (ma difficilmente arriveranno prima di novembre), è stato facile per i commentatori accostare l’ipotesi di nuova moneta globale a Libra, l’unità di conto digitale annunciata da Facebook per le proprie piattaforme di pagamento. A Jackson Hole la cosa è stata lasciata volutamente nel vago: senza escludere che l’universo monetario immaginato da Carney sia antitetico a quello disegnato da Mark Zuckerberg.  Da un lato è parso uno specifico segnale tattico da parte della lobby dei banchieri centrali contro l’aggressività della politica (non solo di quella americana) diretta anche verso i grandi gestori della Rete. Gli stessi banchieri centrali, d’altro canto, sembrano voler rompere gli indugi e mettere il loro cappello regolatorio su ogni sviluppo della tecnologia blockchain in campo monetario. La resa dei conti fra tecnocrazia (sempre globalista) e politica (oggi più sovranista che mai) prosegue.