Nulla sembra più lontano dall’Apocalisse di Kabul dalla sala del resort di Jackson Hole da cui il governatore della Fed, circondato da puledri, orsi e fiumi ricchi di trote a due passi da Yellowstone, si è rivolto ai mercati, ansiosi di sapere finalmente qualcosa di più sulle modalità del tapering, ovvero la lenta ritirata dall’intervento sui mercati. Eppure, per la Casa Bianca dopo la tragica figuraccia in Afghanistan, l’economia è la carta migliore, se non l’unica, da giocare per battere i repubblicani alle elezioni di midterm.
Ma economia non vuol dire solo crescita del Pil. Non a caso quest’anno i lavori di Jackson Hole sono stati dedicati alla “uneven economy”, ovvero le diseguaglianze che segnano la società contemporanea, specie quella Usa dove l’impressionante iniezione di liquidità ha in pratica alimentato l’ascesa dei mercati, assets azionari ma non solo (basti pensare al boom del mercato dell’arte o alle quotazioni degli immobili di lusso), a esclusivo vantaggio dei ricchi. Questa, assieme al climate change e agli interventi a protezione dell’ambiente, è la nuova frontiera che la sinistra democratica chiede alla Fed di cavalcare, con un mix di interventi capaci di metter la briglia ai grandi poteri finanziari, in sintonia con quanto l’antitrust tenta di fare con i Big dell’economia digitale.
Anche di questo si dovrà occupare Powell, se vuol difendere il posto nella prossima primavera, quando il Presidente Biden dovrà decidere sulla riconferma del banchiere che ha peraltro avuto il merito di difendere l’indipendenza della banca entrale ai tempi di Donald Trump. È in questa cornice che vanno inquadrate le scelte economiche d’autunno.
Jerome Powell, che ha bisogno del sostegno del partito (sbilanciato a sinistra) per far marciare il suo pacchetto di 3.500 miliardi di dollari di spesa, dovrà trovare un giusto equilibrio tra i falchi, sempre più numerosi (anche BlackRock chiede lo stop alla liquidità) e i rischi che può comportare una correzione alla sua politica espansiva. Poco prima del suo intervento, tre membri del Federal Open Market Committee della Federal Reserve si sono espressi a favore di un immediato avvio del programma di riduzione degli acquisti di bond, necessario per scongiurare la bolla immobiliare e metter sotto controllo l’aumento dei prezzi, il morbo sottile che torna a insidiare i redditi reali. L’inflazione per il momento è accettata bene dai mercati finanziari, ai quali bastano la salita costante delle borse e l’ottima tenuta dei bond, ma è tollerata meno dai consumatori, che fra 14 mesi si trasformeranno in elettori.
Che l’inflazione sui beni essenziali cominci a essere un nervo scoperto per l’Amministrazione Biden lo si vede dalla disponibilità dichiarata a scendere a compromessi con l’Iran (per fare diminuire il prezzo del petrolio) e dall’aumento del 20% del valore dei sussidi alimentari federali concessi a 42 milioni di americani. Ma la Fed non è in una posizione comoda. Da una parte ha l’inflazione, come abbiamo visto, ma dall’altra ha un’economia globale fragile sotto la pressione del Covid. E c’è il precedente del 2013, quando l’annuncio del tapering fece precipitare gli emergenti: oggi qualcosa del genere può ripetersi in Brasile, Turchia e altri mercati non sostenuti dall’incremento di prezzo delle materie prime. E per il soft power americano, precipitato agli inferi dopo la serie di imbarazzanti e tragici errori in Afghanistan, una crisi finanziaria in aree chiave per l’autorità di Washington sarebbe una sorta di colpo di grazia. Molti Paesi emergenti che non hanno la fortuna di avere materie prime barcollerebbero seriamente se la Fed dovesse iniziare a stringere. Ma anche nei Paesi industrializzati la prospettiva di un ritorno alla normalità si allontana se è vero che i vaccini offrono una copertura limitata e che controlli e restrizioni si prolungheranno.
Difficile, peraltro, che queste preoccupazioni agitino più di tanto Washington, condizionata da un’ondata di isolazionismo che va assai al di là della dottrina Trump. Dietro le scelte sui tassi si profila insomma uno scenario nuovo, condizionato dalla decisione Usa di abbandonare alle potenze regionali il controllo degli equilibri di quella porzione di mondo che va dall’Asia Centrale all’Oceano Indiano. Una leadership autoridotta, che bada poco all’Europa, più gregaria che alleata, e si concentra sul Far East, area vitale per contenere la potenza della Cina.
Il risultato? Una svolta soft, destinata a dare una soddisfazione solo relativa ai falchi. Si procederà verso un 2022 all’insegna del tapering e un 2023 dedicato a qualche modesto rialzo dei tassi, ma con la costante preoccupazione di rimanere ampiamente al di sotto dell’inflazione per tutti i prossimi anni. Intanto, però, il Tesoro si prepara a inondare i mercati con nuove emissioni nella convinzione che, tapering o meno, i tassi resteranno bassi e che nel mondo ci saranno sempre compratori di bond Usa. Magari anche tra i talebani.
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