Vecchio problema, quello del finanziamento pubblico dei partiti e, quindi, della possibilità di fare politica offerta anche per le classi meno ambienti, quelle che per vivere devono svolgere un’attività economica che consenta loro la sussistenza. Ben conosciuto già nella Grecia antica, ha conosciuto varie fasi nei vari ordinamenti. “Le funzioni di Senatore e di Deputato non danno luogo ad alcuna retribuzione od indennità” recitava l’art. 50 dello Statuto Albertino. Del resto, non si ravvisava alcuna ragione – ai tempi dello Stato liberale – di riconoscere alcun compenso per un’attività che era ad esclusivo appannaggio dei più benestanti.



Di questo antico tema democratico se ne occupò ampiamente anche l’Assemblea Costituente, cui ha fatto seguito una regolamentazione del finanziamento pubblico dei partiti imperniato sul finanziamento ai gruppi parlamentari.

Ora: di chi cosa si tratta? Si tratta di finanziare i politici o la politica?  Siamo di fronte ad un servizio reso al Paese o ad una “casta”?



Non aver mai affrontato il dibattito in modo radicale ha creato confusione e ha portato prima all’abolizione del finanziamento pubblico con il referendum del 1993 e poi dei rimborsi elettorali ad opera del d.l. 47/2013 (convertito in legge con l. 13/2014).

È giusto chiedersi se quel passaggio, consumatosi nel 2013, abbia o no contribuito alla graduale crisi degli attuali partiti politici, a maggior ragione se si considera che alla reazione festante dell’opinione pubblica per il successo dell’abolizione è seguita una crescente disattenzione su come il sistema partitico avrebbe potuto e dovuto sostenere i costi intrinsecamente connessi alla propria azione, se non in chiave scandalistica e senza alcuna profondità.



L’alternativa tra finanziamento pubblico, regolamentato, e finanziamento pubblico vietato non è poi così radicale, sempre che se ne voglia parlare seriamente, toccando l’ulteriore tema dei costi della democrazia, anche questo portato nel fango dalla campagna elettorale sulla riduzione del numero dei parlamentari. O come si è malamente ragionato sull’obbligo per i membri del M5s di versare al partito parte del loro emolumento come parlamentare, non sempre verificatosi e difficilmente enforceable.

Del tema si torna a parlare oggi, con la notizia secondo cui “la chiave per tornare al finanziamento pubblico dei partiti è di trasferire in Italia il Regolamento europeo su tema”. Ipotesi riportata dal Fatto Quotidiano e attribuita ad importanti esponenti della sinistra Pd.

Ovviamente, non si può “trasferire” il Regolamento tout court, benché sia noto che i Regolamenti europei sono direttamente applicabili in Italia. Si tratta piuttosto di adattare una normativa vigente in quell’ordinamento alla situazione italiana, che – non bisogna dimenticarlo – ha abolito per referendum la normativa in materia.

Riportare in auge e in vigore il rimborso della spese elettorali può avere un senso, sempre che qualcuno se ne faccia davvero carico tornando a spiegare il senso della misura. Per il resto, si propone di finanziare fondazioni legate ai partiti tramite progetti speciali legati alla formazione della classe dirigente. Una buona idea che tuttavia, come tutte le buone idee, è strettamente legata alle modalità della sua realizzazione e al soggetto che eroga e che poi dovrebbe anche controllare l’uso dei finanziamenti. Altra questione: si tratterà di finanziamenti ordinari? In questo caso tornerebbe lo spettro del controllo della Corte dei conti, evitato in passato tramite il finanziamento ai gruppi parlamentari, a ciò sottratti in quanto organi interni delle Camere, dotate a loro volta di piena autonomia, costituzionalmente garantita.

Il tema si collega, inevitabilmente, alla attuazione dell’art. 49 della Costituzione, su cui molti ragionano anche sulla base del modello tedesco, in cui i partiti sono associazioni di natura pubblica e le cui fondazioni “fanno” politica anche tramite attività culturali. Un modello studiato ma su cui, per ora, non si è ottenuto alcun risultato, nonostante i pregevoli sforzi della dottrina.

Se ci sarà un seguito, occorrerà riprendere gli studi già compiuti e comprenderne la fattibilità nel nostro sistema, che – resta assodato – su questo e su altri punti non gode di buona salute. Ma siamo davvero pronti a tornare ad investire, anche finanziariamente, sulla nostra democrazia?

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