Come si è modificato il quadro epidemiologico? Il direttore generale dell’Oms, Tedros Ghebreyesus, ha recentemente dichiarato che “la fine della pandemia di Covid-19 è vicina” – considerando che “i decessi settimanali per virus in tutto il mondo sono al livello più basso da marzo 2020”. Ci sarebbe da obiettare circa il parametro invocato per accertare la “fine” della pandemia – anche se l’Oms ci ha ormai abituato alle comunicazioni approssimative, confuse e che di scientifico non hanno proprio nulla.
A livello globale, il 60-65% della popolazione ha ricevuto almeno due dosi di vaccino e il 55% ha anche effettuato il richiamo. Considerando quanti sono stati infettati, circa il 90% della popolazione mondiale ha sviluppato una qualche forma di immunità, naturale o da vaccino.
La comparsa di Omicron, dominante già da gennaio 2022, e delle successive varianti ha comunque modificato significativamente il quadro epidemiologico. L’immunizzazione – naturale o acquisita anche con i vaccini più “aggiornati” – si è rivelata insufficiente a contenere il diffondersi dell’epidemia, anche se questa ha assunto caratteristiche cliniche del tutto diverse dalla precedente. In particolare, la somministrazione di una quarta dose a persone non previamente esposte alla malattia ha mostrato come l’efficacia dei vaccini Pfizer e Moderna nel ridurre il tasso di infezione diminuisce significativamente già dopo le prime cinque settimane (52%), per diventare addirittura negativa (-2%) a 15 settimane. Questo risultato, preannunciato da numerosi altri studi, tra cui uno del nostro Istituto Superiore di Sanità, è tra i più sorprendenti e paradossali mai registrati ed è grave che non abbia riscosso l’attenzione che merita. Come è possibile che una vaccinazione, predisposta per assicurare maggiore protezione nei confronti dell’infezione e della malattia, finisca, dopo pochi mesi e nonostante 2-3 richiami, a compromettere le difese della popolazione?
È plausibile ipotizzare che la reiterazione delle somministrazioni vaccinali possa aver “stressato” il sistema immunitario, come peraltro ammesso dallo stesso European Centre for Disease Prevention and Control dell’Unione Europea. Questo è preoccupante, perché la reiterazione del richiamo vaccinale non solo espone il vaccinato a un maggior rischio di infezione da Omicron, ma ne indebolisce la capacità di risposta nei confronti di altre malattie.
I vaccini “aggiornati” – capaci di intercettare le prime varianti Omicron – non si comportano meglio, dato che, come rilevato da Nature, non offrono una protezione superiore a quella già conseguita con il vaccino originale. Questi elementi rendono improponibile il ricorso ad ulteriori richiami e impongono l’adozione di una diversa strategia di contenimento.
La vaccinazione ha permesso di attenuare mortalità e tasso di ospedalizzazione tra gli anziani nel corso della fase Delta, ma è chiaro che l’insorgenza di nuove varianti rende insufficiente il livello di immunizzazione conseguito, sia per via naturale sia tramite vaccino. È quindi necessario valutare con obiettività le alternative ai vaccini a mRNA.
Paesi con copertura vaccinale comparabile – o inferiore – a quella conseguita in Italia, ma ottenuta con vaccini tradizionali (Soberana, Covaxin), hanno sorprendentemente portato a risultati migliori dei nostri. È tempo di prenderne atto e di domandarsi se la scelta di affidarsi a Pfizer e Moderna sia stata realmente la migliore.
Il dubbio è più che legittimo se si considera la reticenza delle case farmaceutiche nel fornire dati, informazioni sugli eventi avversi, costi e dettagli tecnici, anche rifuggendo dal confronto con le massime autorità dell’Unione Europea. Inoltre, la Federazione di Medicina Generale (Fimmg) che – con l’ausilio del professor Massimo Andreoni – ha redatto un protocollo per le cure domiciliari, ha finalmente restituito il Covid alla scienza medica, sottraendolo alle assurde raccomandazioni dell’ex ministro Speranza: “tachipirina e vigile attesa”.
Il nuovo protocollo sancisce quanto migliaia di medici già sapevano per esperienza e che – nonostante i divieti e le minacce – si erano industriati a mettere concretamente in atto durante la pandemia: la malattia può essere efficacemente curata con farmaci convenzionali, cui si sono associati recentemente gli anticorpi monoclonali e antivirali di nuova generazione. Se dall’inizio si fosse mantenuto un atteggiamento “aggressivo” basato su questi presidi, avremmo ridotto morti e ospedalizzazioni del 90%.
La ridotta gravità clinica delle infezioni sostenute da Omicron, unitamente allo “sdoganamento” delle terapie domiciliari, ha così definitivamente stravolto il quadro complessivo: in attesa di nuovi vaccini ottenuti da virus attenuato e magari somministrati per via nasale, non sono più necessarie campagne vaccinali, specialmente quelle che sono state alimentate dal terrore, dalla coercizione e da un obbligo che – con buona pace della Corte costituzionale – stride con il dettato della nostra Magna Charta. Lo stesso Corriere della Sera è costretto a riconoscere quanto segue: “Il Covid sta correndo velocissimo e decisamente di più dello stesso periodo dello scorso anno; il numero di ricoveri è in crescita, ma in proporzione meno rispetto alla diffusione dei casi positivi: da qui si deduce che il virus è meno aggressivo […] Tra i non vaccinati fra i 60 e 79 anni finiscono in ospedale in 75 su 100mila, e in terapia intensiva 5 su 100mila. Tra i vaccinati finiscono in ospedale 30 su 100mila, e in terapia intensiva 2 su 100mila”.
Dal che si deduce che: 1) il vaccino riduce la probabilità di ospedalizzazione e in terapia intensiva solo del 60%: un po’ poco come risultato dopo 2, 3 o anche 4 vaccinazioni; 2) il vaccino non influenza affatto la trasmissione del virus, dato che i contagi sono dieci volte superiori all’anno precedente.
In sostanza, quindi, il ridotto impatto clinico dell’epidemia è sostanzialmente dovuto non al vaccino, ma al fatto che la variante Omicron è di gran lunga meno aggressiva e, in buona sostanza, può essere assimilata a un’influenza.
Nell’impossibilità di giungere alla completa eradicazione del virus è evidente che la trasmissione del microbo continuerà con ricorrenti ondate stagionali e punte di varia natura – magari associate alla contemporanea “ricomparsa” dell’influenza – anche durante la fase endemica. Che l’influenza si riaffacci oggi, dopo due anni di relativo lockdown, non è affatto inusuale e attesta semplicemente il fatto che quarantene e artificiose segregazioni della circolazione dei virus, rendono la popolazione – soprattutto quella più giovane – maggiormente suscettibile di sviluppare la malattia.
Quanto sta accadendo attualmente in Cina – con la drammatica ripresa della diffusione virale – ne è triste conferma. Nonostante l’elevato tasso di immunizzazione, la popolazione può infatti continuare a contrarre nuove infezioni. Se questo richiederà nuove vaccinazioni – e con quale vaccino – va accertato, sulla base delle specifiche situazioni di ogni Stato e non secondo la programmazione centralizzata voluta dalla Ue, come ha recentemente sottolineato il nuovo ministro della Salute, Orazio Schillaci, che ha tra l’altro ricordato la rilevanza dei danni causati dai vaccini che molto incide sulla valutazione del rapporto costi/benefici. Per questo occorre uno studio spassionato, non proclami ideologici per gestire al meglio l’endemia, rifuggendo dai toni apocalittici e dalle sciagure annunciate senza avere a supporto nessun dato scientifico.
I dati epidemiologici reali
In merito è bene ricordare come i dati epidemiologici fondamentali – incidenza, indice Rt, tasso di letalità e mortalità generale – siano stati viziati da importanti bias che ne minano la credibilità. Per quanto riguarda l’incidenza dell’infezione, usualmente misurata come rapporto tra positivi all’esame del tampone molecolare e casi esaminati totali, questa è stata probabilmente sovrastimata a partire dall’estate del 2020. Basarsi esclusivamente sull’esito di un tampone, utilizzato impropriamente per condurre screening di massa, ha fatto sì che siano stati registrati falsi positivi (persone positive al test, ma che non veicolavano il virus della Sars-CoV-2) nel 70-90% delle volte.
La valutazione delle caratteristiche di diffusione virale in queste circostanze mutevoli e la comprensione delle proprietà biologiche delle nuove varianti Sars-CoV-2 sono tuttavia essenziali per spiegare le modalità di diffusione, le fluttuazioni endemiche e – in definitiva – per correttamente orientare le pratiche di salute pubblica. Nel prossimo futuro dovremo perfezionare un insieme di test capaci di identificare in modo attendibile gli individui effettivamente capaci di trasmettere l’infezione.
Ciò detto, nonostante i limiti che inficiano la bontà delle rilevazioni epidemiologiche correnti, va rilevato come il quadro complessivo mostri una condizione endemica rassicurante, con scarso impatto sulle strutture del sistema sanitario (Fig.1 a e b).
L’incertezza relativa alla letalità (numero di decessi dovuti alla malattia in rapporto all’insieme dei contagiati) è una costante di tutte le epidemie dell’epoca moderna. Le stime relative alla Spagnola (1918-1920) fluttuano incredibilmente da 17 a 100 milioni (!); per la pandemia influenzale del 1957-1959 la valutazione va da 0,7 a 1,5 milioni; l’influenza di Hong Kong dovrebbe aver causato da 1 a 4 milioni di vittime, mentre quella del 2009 da 0,2 a 1 milione. Anche la stima delle morti per influenza stagionale varia in modo sostanziale da 0,3 a 0,7 milioni di casi, anche se il tasso di mortalità complessiva – dovuto alle complicanze tardive – permette tranquillamente di raddoppiare questi valori (cfr. Tab. I).
Fig. 1. Variazione dei tassi di incidenza (a) e di occupazione delle terapie intensive (b) negli anni 2020, 2021 e 2022. Va rilevato come fosse alta l’occupazione dei posti in terapia intensiva durante il 2020 anche a fronte di un modesto tasso di infezione. I due parametri procedono invece parallelamente nel 2021, mentre nel 2022 un’elevata diffusione della malattia non si è accompagnata a un parallelo incremento nei ricoveri, in ciò dimostrando la benignità della variante Omicron, divenuta dominante proprio agli inizi del 2022. Fonte: Il Sole 24 Ore (ultimo accesso 7 dicembre 2022)
La stima delle morti rimane ancora incerta. Le prime valutazioni – fortemente distorte dalla pressione mediatica – sono risultate ampiamente esagerate, finendo con l’instillare un comprensibile timore tra i cittadini. Ai primi del 2021 la letalità era compresa a livello globale tra 0,15 e 0,23%. Si ritiene oggi che il tasso di letalità sia in realtà irrilevante fino ai 60 anni, con valori che vanno da 0,001% al di sotto dei 20 anni (1 decesso ogni mille persone colpite dal Covid) a 0,15% per la fascia d’età 50-59.
Il quadro cambia notevolmente per i più anziani per arrivare a 0,49% e addirittura a 2,2% per gli ospiti delle residenze per anziani e malati cronici. Questi dati fanno del Covid una malattia di gran lunga più benigna dell’influenza per tutte le fasce di popolazione al di sotto dei 60 anni (per i quali, sia detto per inciso, non si dovrebbe prevedere alcun supporto vaccinale), e una patologia estremamente seria per gli anziani (over 75 anni), specialmente se affetti da importanti patologie croniche.
Tab. I – Impatto complessivo (letalità e mortalità) delle principali pandemie degli ultimi cento anni e dell’influenza stagionale. Fonte: referenza # 5)
Le grandi differenze registrate tra i diversi Stati – dove il dato italiano spicca tra i più alti – possono essere dovute a numerosi motivi, correlati a differenze geografiche, etniche e sociali. Contano – e non poco – le strategie di contenimento messe in essere, dato che nazioni che hanno avuto bassi tassi di vaccinazione con i vaccini Pfizer/Moderna (come la Polonia) o regioni in cui il piano vaccinale si è basato su altri tipi di vaccini (India, Messico, Marocco), hanno sorprendentemente mostrato tassi di infezione e di letalità significativamente inferiori a quelli italiani (Fig. 2 e 3). Non si tratta di differenze di poco conto, e il ministro della Salute farebbe bene a promuovere uno studio per acclarare se le scelte terapeutiche e le misure non farmacologiche di contrasto alla malattia non abbiamo alla fine congiurato nel peggiorare il quadro complessivo dell’epidemia.
Fig.2. Andamento dei tassi di infezione in Stati a diverso regime vaccinale. Marocco e India hanno utilizzato vaccini tradizionali. La Polonia e gli Usa hanno impiegato vaccini Pfizer e Moderna ma con una copertura vaccinale inferiore al 60% e al 70% rispettivamente. Sorprendentemente i più alti tassi di infezione si sono registrati in paesi con coperture vaccinali superiori all’85%, conseguita con vaccini a mRNA (Italia e Francia). Fonte: Our in World Data, John Hopkins University (ultimo accesso 7 dicembre 2022)
Il tasso di letalità spiega tuttavia solo in parte l’aumento del tasso di mortalità complessivo registrato – soprattutto nel 2021 – e che va ascritto non tanto a conseguenze tardive delle infezioni Covid, quanto all’incremento per altre patologie che, soprattutto nel corso dei primi due anni di epidemia, non sono state tempestivamente diagnosticate e curate.
Per snocciolare alcuni numeri, nel 2020 – rispetto al 2019 – abbiamo registrato un -1,3 milioni di ricoveri, 620.000 interventi chirurgici saltati (o posticipati in media di 9 mesi), 750.000 ricoveri programmati annullati, 550.000 ricoveri urgenti cancellati, -20% di impianti di pacemaker, -20% di interventi cardio-chirurgici, -13% di ricoveri oncologici, 90 milioni di prestazioni di laboratorio in meno.
La rilevanza delle morti “per eccesso” è probabile che superi per questo quella dovuta direttamente al Covid, anche se al momento i modelli epidemiologici di cui disponiamo difficilmente possono fornirci stime realmente affidabili.
I dati sopra ricordati evidenziano però bene come la pandemia abbia messo a dura prova l’intero sistema sanitario con conseguenze che al momento possono difficilmente essere quantificate e possono solo essere ipotizzate.
Fig.3. Andamento dei tassi di letalità in Stati a diverso regime vaccinale. Marocco, Messico e India hanno utilizzato vaccini tradizionali. La Polonia e gli Usa hanno impiegato vaccini Pfizer e Moderna ma con una copertura vaccinale inferiore al 60% e al 70% rispettivamente. Sorprendentemente i più alti tassi di infezione si sono registrati in paesi con coperture vaccinali superiori all’85%, conseguita con vaccini a mRNA (Italia, Giappone e Francia). Fonte: Our in World Data, John Hopkins University (ultimo accesso 7 dicembre 2022)
Disinformazione e sistemi sanitari
La gestione mediatica della pandemia ha rappresentato un problema tra i problemi. Una valanga di informazioni distorte, incomplete, quando non addirittura false e fantasiose, propalate tanto dai media quanto dai social, da una parte e dall’altra della barricata che ha visto popoli e nazioni spaccarsi in due, hanno alimentato odi, discriminazione, emarginazione, terrore e ignoranza. La narrativa dominante è venuta imponendosi, complice il pavido silenzio di tanti, troppi medici, e l’attivismo mediatico di pochi altri che si sono impegnati a sostenere una vera e propria guerra mediatica, non di rado difendendo posizioni contraddittorie, confondendo ipotesi e opinioni personali con la solidità dei dati scientifici reali, finendo con il dimostrare uno zelo partigiano che sarebbe stato degno di ben altra causa.
Innamoratisi del ruolo, non pochi di costoro hanno finito con il debordare dai propri compiti, finendo con l’esporsi su temi del tutto estranei alla loro competenza (dal sesso alle ricette e financo sulla guerra in Ucraina e sulle elezioni politiche). Ovviamente, tutto questo non ha reso un buon servizio alla scienza, ma ne ha incrinato la credibilità, ingenerando ulteriori confusioni e finendo con il radicare e prolungare percezioni errate in merito alla pandemia.
Il combinato disposto di misure dettate da una arbitrariamente pretesa “verità” scientifica – assurta a livello di dogma indiscutibile – assunte dal governo in regime emergenziale, con scarsa o nulla condivisione parlamentare – ha finito con il proiettare una luce sinistra sulla qualità della democrazia nelle nazioni occidentali, come acutamente osservato da più parti.
Di più: come suggerito da un recente studio di Nature, in questo contesto di caccia ai presunti untori (quando già si sapeva che i vaccinati potevano trasmettere il contagio tanto quanto i non vaccinati), l’emarginazione si è associata alla compressione delle libertà, dato che “discriminatory attitudes including support for the removal of fundamental rights simultaneously emerged”. Questa situazione favorisce il perpetuarsi delle peggiori condizioni per sanare le ferite inferte dalla pandemia.
Passi decisivi lungo questa direzione impongono di ricalibrare l’enfasi e il sensazionalismo per fornire finalmente informazione corretta, in cui le ipotesi e le opinioni vengano chiaramente distinte dai dati reali, interpretati come vuole la scienza. E la scienza – quella vera – legge i dati in termini probabilistici, e non assolutistici.
Piuttosto che esercitarsi nella nobile arte di Cassandra, politici e uomini di scienza dovrebbero quindi industriarsi a mettere finalmente mano ai veri problemi: definizione di un piano pandemico adeguato, riordino del sistema sanitario nazionale, trattamento delle gravi patologie trascurate in questi anni (cancro e malattie cardiovascolari in primo luogo), riqualificazione del ruolo del medico e dell’offerta formativa universitaria.
Per fare questo occorrono risorse, programmi, idee. E tanto lavoro, non comparsate televisive.
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