Il premier Giuseppe Conte ha battuto un colpo, obbedendo all’antico adagio che invitava gli enti immateriali a farsi presenti nelle sedute spiritiche, e a picchiare sul tavolo come prova del proprio esistere. Lo spirito del primo ministro si è dunque ri-materializzato ieri in una conferenza stampa in cui Conte ha minacciato le dimissioni se i due contraenti del contratto di governo, vecchio di un anno, non si metteranno d’accordo per andare avanti con lo stesso spirito di 12 mesi fa. “Non vivacchio”, ha scandito Conte. Il premier non vuole tirare a campare, nonostante questa sia la specialità in cui ha mostrato di eccellere in questi ultimi mesi.



Il premier era partito in sordina, con il passare dei mesi aveva sfoderato un talento da mediatore e sembrava in grado di tenere a bada i due vicepremier con una certa abilità. Poi è scoppiato lo scandalo Siri e la Lega gli ha ridotto la fiducia, degradandolo a scudiero degli interessi M5s. Da allora Conte non è più riuscito a ridarsi un tono, e nei due mesi di campagna elettorale ha mollato il timone. Il governo si è impantanato, nessun arbitro ha fischiato i falli che i contendenti si scambiavano e il Grande mediatore si è ridotto al ruolo di Grande imboscato.



Ora però le cose si mettono male per tutti, perché la campagna elettorale per le europee è stata come un terremoto che ha lasciato soltanto macerie. Le schermaglie tra Lega e M5s hanno evidenziato tutti i nodi irrisolti dell’esecutivo e ora rimettere insieme i cocci è impresa disperata. Il presidente Mattarella, che nei mesi scorsi aveva puntato su Conte accreditandolo anche in Europa come uno dei garanti del rispetto degli impegni presi, gli ha nuovamente affidato il compito di sbrogliamatasse. Se Lega e M5s non riescono più ad andare d’accordo, che sia Conte – e non altri – l’esploratore di questa pre-crisi.



Di fatto, la crisi di governo è già aperta. In altre occasioni era stato incaricato un premier “esploratore” con il compito di schiarire l’orizzonte. Le parole di ieri di Conte svolgono proprio questa funzione: indurre i partiti della maggioranza a uscire allo scoperto. Il primo a rispondere è stato Matteo Salvini, come era successo otto giorni fa alla chiusura delle urne europee. Mentre Conte arringava gli italiani (“Chiedo alle forze politiche una risposta chiara, inequivoca e rapida perché il Paese non può attendere”), criticando le schermaglie a mezzo stampa e a mezzo social, il leader leghista ha risposto all’ultimatum in tempo reale e via social, ribadendo su Facebook quello che poche ore dopo la chiusura delle urne europee aveva detto da via Bellerio: la Lega c’è, è leale ed è presente.

Chi ci ha messo di più a reagire è stato Luigi Di Maio. Riflessi lenti e idee non chiarissime caratterizzano l’ultimo periodo del capo politico dei 5 Stelle. La risposta del vicepremier pentastellato è carica di distinguo: Di Maio ha chiesto che finiscano gli attacchi ai ministri grillini e che vengano accantonati i “temi divisivi mai condivisi fuori dal contratto”. Il ministro del Lavoro ha poi chiesto un vertice immediato, da tenere questa mattina, pur sapendo che le agende del premier e dei vice rendono l’incontro impraticabile fino a venerdì.

A una settimana dal voto europeo, è sempre più chiaro che i rischi per la sopravvivenza del governo sono più legati alle incertezze di Di Maio che alle posizioni sovraniste di Salvini. Le urne hanno spaccato il M5s, consolidando la minoranza interna di Roberto Fico nostalgica della vecchia sinistra. Se Salvini risponde immediatamente all’appello di Conte saltando i rituali della vecchia politica, Di Maio appare impastoiato nelle divisioni interne, prigioniero dei suoi detrattori e incapace di uscire dall’angolo in cui i suoi avversari, e i propri errori, l’hanno costretto. Il M5s mostra tutti i suoi limiti di pura forza di protesta, incapace di svolgere un ruolo attivo di governo. Ma ormai il cerino della crisi è acceso e resta da vedere a chi brucerà la mano.

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