La cassiera del supermarket, notando in me una certa disobbedienza, mi ha invitato a mantenere la giusta distanza: “Un po’ più indietro, gentilmente”. E, in maniera molto garbata, mi ha indicato nel pavimento quale fosse la distanza: era segnalato lo spazio di un metro. Così, nell’attesa che arrivasse il mio turno, ho guardato a lungo quello spazio disegnato.
Mi sono ricordato quando, durante le elementari, la maestra ci ha raccontato di quella famosa barra di platino–iridio conservata nel Laboratorio di Pesi e Misure a Sévres, vicino a Parigi, in una camera alla temperatura costante di 0 gradi. Fino all’altro ieri, quando sentivo parlare di “metro” l’ho sempre collegato a questa forma di misura scientifica. Che, da sportivo, son abituato a moltiplicare per migliaia quando corro a piedi o in bicicletta, per poi gioire dell’accumulo finale registrato nel contachilometri.
Da domattina, inizio della Fase 2, quel metro più che un aiuto a misurare è pronto a diventare un’accusa dalla quale difendersi: “Non hai rispettato il metro di distanza!” Non sarà più, dunque, una misurazione ma una segnaletica: attenti a non stare troppo vicini, per evitare un possibile contagio.
Ne soffriremo, sono certo, abituati com’eravamo agli abbracci, alle strette di mano, alla confidenza di gesti che anticipano le parole. Non ci basterà, nella quotidianità delle azioni, la letteratura della distanza, tipo che “è nella separazione che si sente, si capisce la forza con cui si ama” (F. Dostoevskij). È bella quando, appena l’hai avvertita, hai la possibilità d’annullarla: protrarla all’infinito, però, diventa frustrante.
“Cosa sarà mai un metro, dai!” dirà qualcuno. Niente se lo spazio si misura in km, ma se lo spazio si misura in relazioni umane un metro è un abisso: è l’impossibilità della confidenza sociale, del bisbigliare all’orecchio, della riservatezza durante una confessione.
Da unità di misura della scienza, ecco che in un battibaleno il metro sta diventando una forma di misurazione umana: vicini è rischioso, stare ad un metro di distanza è consigliato. È obbligatorio. Quando, eventualmente, non lo si potrà garantire, una mascherina ci ricorderà che c’è una distanza da controllare: devo garantirmi e garantire che né io né l’altro possiamo contagiarci a vicenda. Sarà strano vivere così, sarà un po’ sopravvivere: eppure dovremmo farci tutti i conti, per tantissimi giorni ancora, finché un vaccino non ci salverà.
Quel metro, tratteggiato per terra al supermercato, è una raffigurazione visiva di che cos’è il sospetto. Siccome non so chi sei tu – da dove vieni, perché stai tossendo, perché mi guardi così – allora è meglio che teniamo le distanze: non sia mai che, da qui, io ne esca menomato, contagiato. L’altro, dunque: ecco chi, da domani, pagherà il conto di quel metro. Sapendo che per un altro, l’altro sono io: siamo sempre l’altro di qualcuno, è il prezzo d’essere umani.
In questo metro, dunque, dovremmo ricostruire una nuova forma di relazione, una sorta di umanesimo–a–distanza: dove “distanza”, ufficialmente, è garanzia di salute ma, alla lunga, potrebbe rivelarsi una scusante per generare diffidenza in perpetuo. M’è parsa così strana quella misura tratteggiata che, mai come in questi giorni, avverto quant’è pressato e affollato quel metro che tutti dovremmo rispettare.