No, non era così che Mario Draghi si era immaginato il giorno in cui avrebbe potuto annunciare la data della fine dello stato di emergenza. Era la missione numero uno per cui il suo governo era nato esattamente un anno fa. E allora nessuno poteva pensare che fossero venti di guerra provenienti dalla frontiera fra Ucraina e Russia a poterlo offuscare. 



L’annuncio che le restrizioni sono destinate a cadere gradualmente a partire dal 1° di aprile è venuto a Firenze e sicuramente contribuirà a ricompattare una maggioranza sempre più litigarella. E persino davanti a questa svolta c’è chi esulta dì più (Lega in primis), e chi di meno (l’ala prudente, capitanata da Speranza). Di fine emergenza Salvini è andato a parlare direttamente con Mattarella, poche ore prima dell’annuncio di Draghi. Fosse per lui si andrebbe anche più in là, con la cancellazione dell’obbligo del green pass. Non può permettersi di lasciare la bandiera di questa battaglia alla Meloni. Per ora, però, deve accontentarsi, e applaudire Draghi.



Nel destino del governo, nei prossimi mesi, è fin troppo facile immaginare un percorso a ostacoli, fatto di stop and go, di strattoni da una parte e dall’altra. I partiti, mano mano che si avvicinano le elezioni, avvertiranno sempre più stringente la necessità di marcare i propri temi identitari. Il premier ha cercato di avvertire i partiti dei rischi che si corrono a esagerare, ma il suo richiamo sembra aver avuto un effetto limitato. Lo stop alle fughe in avanti è durato solo pochi giorni.

Eppure mai come in questo momento il governo avrebbe bisogno di unità di azione e di intenti. Il fattore che sta cambiando ogni scenario è la crisi ucraina, che va a sommarsi all’impennata del prezzo dell’energia, che potrebbe peggiorare ulteriormente qualora il flusso di gas proveniente dalla Siberia dovesse rallentare. Che l’Italia sia ritenuta a Mosca l’anello debole dell’Occidente è dimostrato da una quantità di comportamenti di Putin e del Cremlino tesi a inserire un cuneo fra noi e il resto dell’Occidente, in ragione della nostra maggiore dipendenza dal gas. Non a caso è  emersa una polemica delusione russa nell’apprendere che Draghi e Di Maio non hanno intenzione di avere incontri bilaterali in questa fase. Da Mosca un sarcasmo al limite dell’offesa. 



È davvero tutta unita la politica italiana di fronte alla crisi russo-ucraina? Lecito dubitarne. Salvini fatica a scrollarsi di dosso l’etichetta del filorusso, che risale ai tempi del governo giallo-verde. Continua a predicare cautela nell’imporre sanzioni perché, alla fine, potrebbe essere proprio l’Italia a pagare il prezzo più alto fra i paesi occidentali, essendo il più dipendente dal gas, e senza l’alternativa del nucleare. E anche su questo terreno il timore di uno scavalcamento da parte di Fratelli d’Italia appare evidente. Al contrario, Letta non cessa di incalzare gli alleati richiamando all’unità, convinto che Putin sarebbe tentato di tirare dritto vedendo divisioni in Italia, in Europa e fra le due sponde dell’Atlantico. 5 Stelle non pervenuti, anche perché da sempre qualche filorusso alberga fra le fila dei grillini.

Di fronte a un simile quadro Draghi non ha scelta, dovrà procedere in un complicato slalom fra i problemi, sperando che la crescita economica record del 2021 non venga vanificata dall’ impennata abnorme del prezzo dell’energia. Nei giorni scorsi, dopo un colloquio con Mattarella che sapeva di approvazione, il premier aveva strigliato i partiti. L’invito a non creare problemi a ogni passo era tanto legittimo quanto opportuno. Ma la minaccia di mollare tutto appare oggi una pistola scarica: nel cielo della politica italiana si addensano nubi tali da rendere impensabile un abbandono della nave. Ci sono i provvedimenti legati al Pnrr da implementare, un sacco di riforme da scrivere, i progetti da avviare per spendere bene i fondi europei. 

Ancor più di prima non si può fallire, è l’unica maniera che abbiamo di rispondere alla crisi economica che la guerra potrebbe portare. Ovviamente quel che vale per Draghi, vale anche per i partiti. Nessuno può permettersi di rompere oggi. La litigiosa maggioranza che si è messa insieme un anno fa su spinta decisiva del Quirinale, sembra condannata a stare insieme, almeno per un altro po’. 

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