“Fine vita, ribaltata la sentenza Cappato: condannato a Torino il presidente dell’associazione Exit, Emilio Coveri, per aver aiutato Alessandra Giordano a morire”. La notizia è di ieri e ha sorpreso quanti hanno seguito in questi anni la tormentata storia della legge sulle Disposizioni anticipate di trattamento, la legge 219/18. Una legge che, dopo la sentenza della Corte costituzionale, molti vorrebbero trasformare in una vera e propria legge sull’eutanasia.



Emilio Coveri, presidente dell’associazione Exit-Italia, è stato accusato e condannato per istigazione al suicidio, dal momento che aveva fornito supporto ad una paziente, Alessandra Giordano, una maestra di 47 anni, depressa e affetta da sindrome di Eagle, che rende difficili i movimenti della testa e del collo. Una patologia certamente dolorosa, ma non terminale. Emilio Coveri le aveva fornito tutte le informazioni necessarie per recarsi a morire in Svizzera, indicandole le quattro cliniche in cui, in Svizzera, si pratica l’eutanasia. E la Giordano aveva scelto la clinica Dignitas a Forch, nel cantone di Zurigo, la stessa clinica in cui era morto DJ Fabo, accompagnato – come si ricorderà – dallo stesso Marco Cappato. Marco Cappato venne assolto dalla Corte d’Assise di Milano, sentenza del 23 dicembre 2019, così come Emilio Coveri fu assolto nel suo primo processo il 10 novembre del 2021. Sentenza oggi ribaltata con il nuovo processo.



Le analogie con il caso Cappato non sono poche, sia per la tempistica, sia per il luogo scelto dalla Giordano per il suo suicidio assistito. Ma i due casi sono anche sufficientemente diversi, tanto da meritare un approfondimento.

Prima di tutto la famiglia di Alessandra Giordano era del tutto contraria al suicidio assistito e avrebbe voluto dissuaderla dal suo proposito, per cui si era schierata contro il supporto offerto dal Coveri attraverso la sua associazione; mentre nel caso di Fabo sembra che non solo la madre ma anche la sua stessa compagna fossero del tutto d’accordo con lui.

La famiglia Giordano avrebbe voluto individuare strade alternative per risolvere una situazione indubbiamente dolorosa in una paziente depressa, ma non terminale, che vedeva nel suicidio l’unica via di uscita. Non a caso la famiglia, cioè la madre, le tre sorelle e un fratello si sono costituiti come parte civile contro la Exit-Italia. Effettivamente, le informazioni che Alessandra Giordano riceveva da Exit erano tutte prevalentemente orientate a confermare la sua volontà di morte, senza che le si prospettassero soluzioni diverse: a cominciare dalla terapia contro il dolore, fino ad una presa in carico della sua depressione. Difficile parlare di un vero e proprio consenso informato, libero, consapevole, da parte della Giordano, quando il quadro depressivo rende molto difficile una valutazione oggettiva della propria situazione e condiziona in modo pesante l’autonomia delle scelte.



È facile in questi casi esercitare, attraverso un’informazione data in modo apparentemente asettico, una pressione sul soggetto, orientandone le scelte in un determinato senso. E anche se Coveri si è limitato solo a fornire informazioni, come lui ha più volte sostenuto, l’abbondanza dei dati forniti, la loro concretezza, unita all’enfasi mediatica rivolta al caso DJ Fabo e il suo stesso epilogo, possono aver condizionato le scelte di una persona a cui mancavano proposte alternative concrete. Sulla stampa di quel periodo la vicenda Fabo veniva raccontata come il riaffermarsi dell’autonomia e della libertà personale e Marco Cappato appariva come paladino di questa stessa libertà.

In quel clima culturale si colloca quindi la prima assoluzione del Coveri, che risale al 10 novembre 2021. Marco Cappato, per seguire l’analogia tra i due casi, era stato sottoposto a processo per aver rafforzato il proposito suicidario di Fabiano Antoniani, tetraplegico e cieco in seguito ad un incidente stradale, e per averne agevolato l’esecuzione accompagnandolo presso la clinica svizzera Dignitas, dove Fabiano Antoniani si è poi tolto la vita mediante un’iniezione letale da lui stesso attivata.

Nell’ambito del processo, su richiesta tanto dei pubblici ministeri quanto dei difensori, venne esclusa la componente di istigazione per Marco Cappato, descritto da gran parte della stampa come il paladino dell’autonomia e della libertà personale. In quell’occasione i giudici sollevarono la legittimità costituzionale dell’art. 580 c.p. e chiesero alla Corte costituzionale di valutare la compatibilità con la Costituzione e la Cedu del reato di istigazione e aiuto al suicidio “nella parte in cui incrimina le condotte di aiuto al suicidio in alternativa alle condotte di istigazione, e, quindi, a prescindere dal loro contributo alla determinazione o al rafforzamento del proposito di suicidio”; dall’altro lato, poi, si argomentava l’incostituzionalità della norma sotto il profilo sanzionatorio, per l’equiparazione tra condotte di istigazione e condotte di mera agevolazione materiale.

La Corte costituzionale, con ordinanza n. 207 del 2018, ha riconosciuto l’incostituzionalità del reato di aiuto al suicidio per il suo contrasto con la libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie. Secondo la Consulta, tale diritto fondamentale si fonda sugli artt. 3, 13 e 32, secondo comma, della Costituzione.

Per Emilio Coveri, invece, nel suo secondo processo è stata confermata l’istigazione al suicidio e la sentenza si è conclusa con la sua condanna a 3 anni e 4 mesi, oltre alla interdizione dai pubblici offici e il risarcimento dei danni alla famiglia. Ma Coveri, tutt’altro che soddisfatto dell’ultima sentenza, intende ricorrere in Cassazione e ha ribadito: “Chiederò di andare in carcere, voglio dare un segnale”.

Non c’è dubbio che non si può valutare il caso Coveri senza tener conto della sentenza assolutoria nei confronti di Cappato; ma la riflessione va fatto anche ripercorrendo a ritroso le due sentenze e chiedendosi se realmente nel comportamento di Marco Cappato, che ha fornito a Fabo tutte le informazioni necessarie, lo ha accompagnato in Svizzera e gli è stato vicino fino alla fine, non ci sia stata una qualche azione di rafforzamento della sua volontà suicidiaria.

Nella vicenda della maestra Alessandra Giordano certamente ci sono tre elementi che esigono una riflessione concreta: non era una malata terminale, era depressa e la sua famiglia era decisamente contraria. Tre fattori che avrebbero meritato una più ampia e approfondita riflessione, sia nella ricerca di soluzioni alternative che nella valorizzazione della rete di affetti familiari. Se si accetta che una persona in piena depressione possa chiedere ed ottenere di fare un vero e proprio suicidio assistito, si corre il rischio di allargare a dismisura la lista delle persone che vi faranno ricorso, come accade attualmente in Olanda, dove perfino soggetti autistici hanno potuto ricorrervi.

L’attuale sentenza offre indubbiamente molti spunti per ripensare non solo alcuni passaggi della legge sulle Dat, ma per accantonare definitivamente la legge sull’eutanasia, evidenziandone l’immediata deriva per molti soggetti in cui il consenso informato è inficiato dalla depressione di cui soffrono e valorizzando di più il ruolo della famiglia.

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