Oggi si tiene al Meeting di Rimini un incontro intitolato “La cura della vita”. È una sintesi antropologica di un modo di concepire l’uomo. Infatti, nella “cura” sono rappresentati due soggetti: chi si prende cura, e chi è preso in cura. Ovvero, per una cura (spesso reciproca) è necessaria concepire l’uomo come relazione.
Negli ultimi mesi sono stati prodotti documenti diversi, che tutti coloro che si occupano di cura, e di cure palliative e di fine vita in particolare, devono conoscere: il parere del Comitato Nazionale di Bioetica del 14 dicembre 2023, che ripropone come modello di riferimento delle cure palliative (con un unico voto di dissenso) quello della persona che per prima ne sottolineò l’importanza, l’infermiera inglese Cicely Saunders e la sentenza 135/2024 della Corte Costituzionale, che, pur ribadendo la inalienabile dignità della vita, tuttavia “allarga” le fattispecie di “interventi di sostegno vitale” alla presenza dei quali possa essere richiesto il suicidio assistito. Ma anche la dichiarazione “Dignitas Infinita” dell’aprile 2024 del Dicastero per la Dottrina della Fede, che riafferma la dignità inalienabilmente fondata nel suo stesso essere di ciascuna persona umana e il Piccolo lessico del fine-vita prodotto nell’agosto 2024 dalla Pontificia Accademia per la Vita, in cui alcune riflessioni potrebbero risultare complementari o interlocutorie rispetto a quelle della Dignitas Infinita.
Va anche tenuto presente che le moderne tecnologie hanno condotto a situazioni cliniche e a domande etiche e giuridiche nuove, per alcune delle quali le risposte devono ancora essere umilmente ricercate e conquistate dall’insieme di amici che si sostengono in questo difficile lavoro.
Un esempio di complessità può essere il difficile bilanciamento tra la valutazione professionale di una terapia o un trattamento vitale artificiale (appropriatezza clinica) e la valutazione soggettiva di gravosità da parte del paziente, dalla cui integrazione emerge la complessiva proporzionalità della cura, così come il fatto che sia appropriatezza che gravosità (e quindi la proporzionalità) si possono modificare nel tempo.
Ma va considerato anche il dubbio per cui ci si chiede se una valutazione di gravosità tale da provocare il rifiuto o la rinuncia a un trattamento valga nello stesso modo per persone che vivono malattie inguaribili ed evolutive (cioè che progrediscono) rispetto a persone che si trovano in situazioni patologiche inguaribili, ma non evolutive (per esempio: esiti di ictus, stati vegetativi). Infine un ulteriore dubbio, vale a dire se una sedazione palliativa profonda eseguibile per un sintomo fisico refrattario in imminenza di morte debba poter essere eseguita anche per una sofferenza psico-esistenziale refrattaria non in imminenza di morte, e il quesito se un inquadramento giuridico “imperfetto” teso a ridurre gli eccessi nella richiesta di suicidio assistito possa provocare, come dimostrato in Paesi in cui la legislazione è già presente, un aumento progressivo della casistica di malati che lo richiedono, per il noto effetto pedagogico della legge, la cosiddetta “china scivolosa”, con una “spinta sottile” sui pazienti più fragili e vulnerabili. La complessità delle situazioni si mostra poi anche nel rapporto tra consenso informato, disposizioni anticipate di trattamento e pianificazione condivisa (anticipata) delle cure.
È possibile che su questi ed altri temi la novità delle situazioni, la loro complessità, le pluralità culturali suggeriscano ipotesi di soluzioni diverse (fino al “caso per caso”), e che non su tutte la risposta sia certa e definitiva.
Ma l’incontro desidera mettere a fuoco qualcosa a monte di quanto sopra, ovvero esperienze di “cura”, di presenza, di rapporto, di “accompagnamento”, di cammino insieme. Infatti, al di là delle sacrosante e legittime preoccupazioni che le volontà delle persone malate, rispetto ai trattamenti loro proposti, siano rispettate, le sottolineature reiterate e con pretesa esaustiva di “autodeterminazione” del paziente, lasciano un gusto amaro di “curanti” a rischio di deresponsabilizzazione, di disinteresse, di presa di distanza, di inerzia nella ricerca clinica e psicologica, di un “accontentarsi” facilmente. Forse per questo la percezione di tanti rispetto alle esperienze degli hospice è quella di una “automatica” desistenza terapeutica? Invece non è così, perché l’hospice è un luogo di vita, di relazione, di assistenza, di formazione, e di ricerca. Cioè di cura, da potersi spendere in fine-vita, e in qualunque rapporto di un uomo che si faccia carico, insieme ad altri, del mistero del limite della vita.
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