Il problema del suicidio assistito ritorna frequentemente sulle prime pagine dei giornali – vedasi l’inchiesta Cappato e il reato di aiuto al suicidio, sulla quale il gip di Milano Sara Cipolla ha trasmesso gli atti alla Corte costituzionale – solo quando la richiesta del soggetto sembra incontrare ostacoli e resistenze da parte delle diverse ASL. In altri termini, sembra che in primo piano ci sia sempre e solo il principio di autodeterminazione del paziente; il suo desiderio di mettere fine alla propria vita, diventata troppo pesante per lui. Ci sono associazioni, partiti politici che di questo diritto hanno fatto la loro bandiera, il centro delle loro campagne elettorali, senza mai mettere in dubbio la libertà del paziente e la forte pressione che su di loro possono esercitare una serie di condizionamenti, a cui, per la loro fragilità, sono esposti ben più di altre persone.
Il tema della libertà, su cui si fonda il principio di autodeterminazione, è uno dei più complessi da comprendere e da valutare, perché ognuno di noi, in modo più o meno esplicito, è pur sempre sottoposto ad una seri di condizionamenti che possono agire in modo subdolo e progressivamente più insidiosi. Quanto più fragile è il soggetto, tanto più facilmente può essere sottoposto a manipolazioni di ogni tipo. Per i fautori della morte, intesa come un vero e proprio diritto individuale, uno dei nuovi diritti da tutelare ad oltranza, i presunti manipolatori sono quelli che si schierano dalla parte della vita. Non prendono mai in considerazione quanto possa essere pesante la manipolazione in senso opposto, quella di chi propone l’istanza della morte come atto di suprema autonomia, con l’aggravante assoluta però della sua irreversibilità. Perché, se è vero che nessuno fa esperienza della propria morte, scegliere la morte ha il volto drammatico della irripetibilità.
E in questa chiave il Comitato nazionale per la bioetica (CNB) nella sua ultima sessione di lavoro pre-estivo ha voluto tutelare una volta di più i pazienti più fragili, rafforzando uno di quei criteri che la Corte costituzionale, con la sentenza 242/2019, aveva posto tra le cinque condizioni essenziali per depenalizzare il suicidio assistito, concretamente i trattamenti di sostegno vitale. Il CNB ha cercato di fare chiarezza proprio su questo passaggio essenziale, richiamando un passaggio specifico della sentenza 242/2019, in cui si dice espressamente che i trattamenti di sostegno vitale sono l’ultimo presidio a tutela dei soggetti più venerabili. Senza tali requisiti i milioni di malati cronici in quanto tali, compresi i soggetti depressi, sarebbero molto probabilmente esposti a forti pressioni e sollecitati a considerare la possibilità di morire, rifiutando i trattamenti di sostegno vitale.
Il CNB, con grande prudenza e opportunità politica, non è entrato nel merito né del suicidio assistito in generale, né della sentenza 242/2019, ma si è concentrata esclusivamente sui trattamenti di sostegno vitale (TSV). L’incipit della sessione di lavoro è stato un quesito posto dal Comitato etico territoriale dell’Umbria il 3 novembre 2023, in cui si chiedeva di chiarire “i criteri da utilizzare per distinguere tra ciò che è un trattamento sanitario ordinario e ciò che debba essere considerato un trattamento sanitario di sostegno vitale”.
Nella XVII legislatura (Governi Letta, Renzi, Gentiloni) il dibattito parlamentare sulla legge “Consenso informato e sulle direttive anticipate di trattamento”, n. 219/2018, assunse toni caldissimi proprio quando venne approvato il comma 5 dell’articolo 1, dove si legge: “Ogni persona capace di agire ha il diritto di rifiutare, in tutto o in parte, con le stesse forme di cui al comma 4, qualsiasi accertamento diagnostico o trattamento sanitario indicato dal medico … Ai fini della presente legge, sono considerati trattamenti sanitari la nutrizione artificiale e l’idratazione artificiale, in quanto somministrazione, su prescrizione medica, di nutrienti mediante dispositivi medici…”.
Era assolutamente evidente che questo passaggio diventava un rischio gravissimo per la tutela della vita delle persone più fragili. Il caso di Terri Schiavo dagli USA era rimbalzato sulla stampa italiana, aprendo di fatto anche in Italia il dibattito sull’eutanasia: era stata lasciata morire, dopo averle sospeso alimentazione e idratazione, all’età di 41 anni, dopo due settimane di agonia. Chiunque conosceva quella storia non voleva che si ripetesse. Eppure tra molte disquisizioni scientifiche il comma 5 dell’articolo 1 passò, perché l’attenzione venne spostata dalla nutrizione e idratazione, considerati come sostegni vitali fisiologici, essenziali per ognuno di noi, al modo in cui venivano somministrati: “una somministrazione su prescrizione medica, di nutrienti mediante dispositivi medici…”. Ma il modo non cambia la sostanza.
Il CNB, nella sessione di lavoro del 21 giugno 2024, precisando come vadano intesi i TSV, ha votato ad ampia maggioranza a favore della vita delle persone più fragili, precisando che i requisiti, che definiscono la non punibilità, debbono essere necessariamente concomitanti: cure palliative, patologia irreversibile, dolore intollerabile, decisione libera e consapevole e trattamenti di sostegno vitale. Ma soprattutto ha evidenziato come i Trattamenti di sostegno vitale abbiano una enorme rilevanza bioetica, sia perché sospenderli può portare alla morte in tempi brevi, ma anche per non esporre i più fragili a una pressione tale da creare una grave apertura nei confronti dei percorsi suicidari.
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