Il gioco è collaudato: poiché la politica non si decide ad assecondare le istanze di una parte dell’opinione pubblica, la Corte costituzionale con le sue decisioni sopravanza il potere legislativo del Parlamento, per condizionarlo, e se questo non si conforma, la stampa “amica” lo accusa di inadempienza e di “intolleranza del potere al dissenso, persino quando si manifesta con richiami puntuali alla Costituzione”, come quello lanciato da Augusto Barbera lo scorso 18 marzo. Il virgolettato è tratto da un articolo uscito su La Stampa il 2 aprile, scritto per accusare i parlamentari di “calpestare la nostra Costituzione” sul fine vita.
Ma è una mistificazione bella e buona. Perché “tale funzione di supplenza politica è del tutto estranea a quelle attribuite dalla Costituzione alla Corte” osserva Mario Esposito, ordinario di diritto costituzionale nell’Università del Salento e docente alla Luiss di Roma, parlandone con il Sussidiario. “È una sovrapposizione ‘creativa’, come tale indebita, in quanto priva di legittimazione”. Si tratta di un disordine grave, che andrebbe sanato il prima possibile con regole più chiare.
Qui si parla di fine vita e Corte Costituzionale, ma è evidente che il problema è quello, molto più ampio, dello strapotere dei giudici.
Nelle Commissioni Giustizia e Salute del Senato parte l’esame del ddl sul fine vita. Se il parlamento vuole legiferare, o non vuole legiferare, è libero di farlo? Potrebbe sembrare una domanda ironica, ma non lo è.
Certamente sì, è libero. E capisco che non sia ironica, visto l’ultimo intervento del presidente della Consulta su una materia così delicata e di impatto sistematico generale come quella del fine vita, nella quale, secondo un’opinione tutt’altro che minoritaria in dottrina, non vi sono affatto “rime obbligate” di normazione che si possano dedurre dalla Costituzione.
Ma con la sentenza 242/2019 la Consulta non ha riconosciuto il diritto di autodeterminazione riguardo alla propria vita?
È un convincimento diffuso, o che si vuole diffondere, ma non è affatto così. Non si tratta del diritto di ciascuno di disporre della propria vita.
Allora cosa dice quella sentenza?
Si tratta di una cosa completamente diversa, cioè dell’autorizzazione che l’amministrazione sanitaria può dare al malato che versi in condizioni di particolare gravità, quando questi lo richieda, a suicidarsi, fornendogli quel che occorra. Tant’è vero che si parla di “suicidio assistito”: in altri termini, la soppressione del malato mediante “licenza di uccidersi” e la fornitura dei mezzi per realizzare l’evento come “prestazione sanitaria”.
Qual è il principio così sancito dalla Corte costituzionale?
È un principio gravido di aberranti conseguenze, etiche e giuridiche, perché potrebbe condurre, sotto il profilo della parità di trattamento in rapporto al fine perseguito e sotto quello della pari dignità, a riconoscere a chiunque il diritto di togliersi la vita per sua libera scelta e anche ricorrendo all’aiuto altrui, senza che si possano scrutinare i motivi che lo abbiano determinato a dismetterla.
Quindi cosa ha fatto la Consulta con la sentenza 242/2019?
Ha fornito una risposta politica, alternativa a quella del legislatore. Infatti il Parlamento, con la legge 219/2017, ha previsto, oltre all’ovvio divieto di accanimento terapeutico, la facoltà individuale di rifiutare o interrompere ogni terapia – ivi compresa alimentazione e idratazione –, e di poter accedere, in presenza di presupposti di grave sofferenza e di prognosi infausta a breve termine o di morte imminente, alla sedazione palliativa profonda continua.
In altri termini?
Vuol dire che le Camere non avevano optato per alcunché di simile al “suicidio assistito”, quanto piuttosto per l’accompagnamento alla morte. Confermando che il divieto di determinare o concorrere a determinare la morte di chiunque rimane assoluto.
Mettiamo per un attimo da parte le decisioni della Consulta. Ci può spiegare cosa contiene la Costituzione in proposito?
L’intero impianto costituzionale è basato su un principio di solidarietà che potremmo definire “ausiliativa” e conservativa. Non a caso fino alla sentenza 242/2019 la condizione di infermità fisica e/o psichica determinava l’applicazione, anche in caso di agevolazione del suicidio, delle sanzioni previste per l’omicidio. Eppure la Corte non ha speso neppure una parola per motivare come possa giustificarsi un’interpretazione di alcune disposizioni in senso diametralmente opposto a quello del diritto alla conservazione della vita. Sembra quasi un paradosso: la solidarietà, da conservativa, diventa “estintiva”: si coopera nell’estinguere qualcun altro.
Cosa pensa delle cure palliative?
Si tratta di una frontiera avanzata e civilissima, perfettamente coerente con il personalismo di cui all’art. 2 della Costituzione. Non dimentichiamo che la persona è nozione relazionale, e infatti le cure palliative non si esauriscono in terapie mediche, perché la medicina non è soltanto quella che guarisce. Contemplano anche l’assistenza psicologica e sociale per il malato e per le famiglie.
Però le cure palliative costano molto.
Costano molto e la loro normazione è ancora ben lontana dalla compiuta applicazione. Sotto questo punto di vista, l’assistenza al suicidio è certamente meno dispendiosa.
In marzo il presidente della Consulta ha invitato il Parlamento a legiferare sul fine vita “altrimenti ci penserà la Corte”. Cosa pensa di quelle parole di Barbera?
Mi piace pensare che il presidente Barbera abbia voluto rivolgere un monito particolarmente forte perché il Parlamento detti una disciplina delle materie menzionate nella relazione annuale, illustrata prima di parlare con i giornalisti. Il riferimento alla “supplenza” della Corte è invece preoccupante.
Per quale motivo?
Perché tale funzione di supplenza è del tutto estranea a quelle attribuite dalla Costituzione alla Corte, che dovrebbe astenersi da “ogni valutazione di natura politica e ogni sindacato sull’uso del potere discrezionale del Parlamento”. Lo dice l’art. 28 della legge 87/1953, che, piaccia o no, è ancora in vigore. Così facendo la Corte si sovrappone ai poteri e alla legittimazione del Parlamento, forzando la struttura del giudizio di costituzionalità.
Cioè fuoriuscendo dalle sue prerogative?
Il giudizio di costituzionalità non è stato concepito per operare una selezione di interessi propria del procedimento legislativo e non è idoneo a questo. In secondo luogo quella sovrapposizione è una attività “creativa”, come tale indebita, in quanto priva di legittimazione.
Però non se ne parla.
Non è evidente ai più. Risulta “velata” sotto le sembianze di una “interpretazione” della Costituzione, ed assecondata dalla normazione scarna e lacunosa che regola l’attività della Corte. In proposito Tania Groppi ha parlato di “parchitudine”.
Dunque la Corte pretende di sostituirsi al legislatore, anticipandolo per condizionarlo e dicendogli cosa deve fare. Con quali risultati?
Con effetti tutt’altro che appaganti… Basti pensare proprio al “fine vita”, con i diversi orientamenti dei giudici di merito nel dare “applicazione” a quella sorta di norma prodotta dalla Corte costituzionale con la sentenza del 2019, tutt’altro che precisa, chiara ed esauriente. Al punto che un giudice fiorentino, nello scorso mese di gennaio, ne ha chiesto la “revisione” alla stessa Corte.
La “supplenza” della Consulta ha il supporto di una parte dei media. Il 2 aprile su La Stampa è uscito un articolo che accusa il Parlamento di inadempienza e di “intolleranza del potere al dissenso, persino quando si manifesta con richiami puntuali alla Costituzione”. Come commenta?
Parlare di intolleranza del potere al dissenso mi pare estremamente generico, almeno dal punto di vista giuridico. Quanto ai richiami puntuali alla Costituzione, conviene distinguere. Se essi sono posti a fondamento di una sentenza di accoglimento della Corte costituzionale – per intenderci, quella che espunge una norma di legge dall’ordinamento –, concorrono appunto a determinare un effetto certo, che si impone al rispetto di tutti. Ciò peraltro non significa che le decisioni della Corte non possano essere oggetto di discussione, in varie sedi – scientifica, politica –, proprio ed anche in nome del dissenso. A maggior ragione se lo stesso Giudice delle leggi si apre al dibattito generale utilizzando ampiamente comunicati stampa. Nemmeno si può dimenticare che, in democrazia, neanche la Corte costituzionale può essere posta in una sorta di “spazio sacro” sottratto a qualsiasi critica: la Costituzione non è monopolio della Consulta.
Scusi se insisto. Si accusa la politica di “intolleranza del potere al dissenso” della Corte e si legittima un intervento di questa estraneo alle sue prerogative, che riguardano soltanto, lo abbiamo visto, il processo costituzionale. Non le pare un capovolgimento della realtà?
Si tratta di un punto delicato e di grande importanza. Laddove la Corte costituzionale eserciti, sia pure in forma di sentenza, competenze che non le spettano, è del tutto fisiologico – e, direi, segno di democrazia – che il titolare di quelle competenze la rivendichi nel dibattito politico. Certo, se la tensione tra Corte e Parlamento dovesse permanere o addirittura aggravarsi, sarà necessario prevenirne le conseguenze attraverso una disciplina più ampia, coerente e compiuta dei poteri e degli atti della Corte.
In che modo?
Poiché le sentenze della Corte non sono impugnabili e non essendo seriamente prospettabile sollevare conflitto di attribuzioni nei confronti di questa (sarebbe ad un tempo parte e giudice del contenzioso, nda), il Parlamento potrebbe intervenire con una legge costituzionale che svolga e dispieghi al suo superiore livello, con l’eventuale coinvolgimento del popolo in sede di referendum confermativo, la disposizione dettata dall’art. 28 legge 87/1953. Sarebbe anche auspicabile che ci si occupasse di questi problemi in sede di revisione costituzionale, anche ai fini di una più razionale articolazione della forma di governo.
Nello stesso articolo de La Stampa che le ho citato si dice pure che i giudici – senza distinguere se costituzionali o meno, dunque comprendendoli tutti – hanno una funzione “contromaggioritaria”. Cioè di controllo e di opposizione al potere politico, quando questo non si conforma. Le sue osservazioni?
Dal punto di vista giuridico l’affermazione ha poco senso e rischia anzi di essere equivoca. I giudici hanno la funzione di garantire un’imparziale applicazione delle disposizioni legislative. Le leggi, una volta approvate, non sono più espressione di una volontà maggioritaria, ma si impongono a tutti i soggetti dell’ordinamento. Quella formula, comunque, non è nuova.
Ci spieghi meglio.
È servita a celare sotto le mentite spoglie di provvedimenti applicativi di legge il perseguimento di indirizzi politici alternativi a quelli espressi nelle norme di provenienza parlamentare, attribuendo al giudice una capacità intuitiva della “coscienza collettiva”. Anche questi sono indizi di un disordine nel sistema costituzionale.
Non le pare un disordine grave?
Lo è certamente. Sono diversi anni che assistiamo ad un ingente incremento della discrezionalità dei giudici. Paradossalmente, però, lo si deve anche – e in misura prevalente – al legislatore che, direttamente o indirettamente, finisce per delegare una quota dei suoi compiti alla giurisdizione.
Come si torna nella rispettiva delimitazione dei poteri?
Con regole chiare. Le norme costituzionali di organizzazione hanno essenzialmente la funzione di legittimare e contenere i poteri e di consentire un controllo sul loro esercizio, in primo luogo agli elettori. Nei Paesi di radicata tradizione democratica le carte costituzionali sono composte di norme forse più prosaiche, ma puntuali e dettagliate.
Lo dice a chi sta lavorando per cambiare la Costituzione?
L’attuale disegno di revisione dovrebbe tenere conto dell’effettiva evoluzione della forma di governo rispetto al disegno originario. Purtroppo però si sente parlare di fissazione dei princìpi in Costituzione, rinviando il “dettaglio” al legislatore ordinario: non mi pare un buon viatico per un ordinato sistema dei poteri.
(Federico Ferraù)
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