Domani il suicidio assistito torna in Corte Costituzionale. Marco Cappato nel 2022 si era autodenunciato dopo avere accompagnato a morire in Svizzera una donna malata terminale e un uomo affetto da morbo di Parkinson. I pm di Milano avevano chiesto l’archiviazione, ma il Gip ha rinviato gli atti alla Corte.
La questione di legittimità costituzionale riguarda l’art. 580 del codice penale, che oggi punisce l’aiuto al suicidio di persone affette da patologia irreversibile e da sofferenze intollerabili, ma non sottoposte ad un trattamento di sostegno vitale.
Quattro malati inguaribili, contrari al suicidio assistito, non soggetti a trattamento di sostegno, che vogliono difendere la loro stessa vita nonostante la sofferenza hanno chiesto di essere ammessi ad intervenire in giudizio per chiedere alla Corte di rigettare la questione di costituzionalità e di conservare il trattamento di sostegno vitale tra i requisiti di non punibilità della condotta di aiuto al suicidio.
“L’accoglimento della questione di legittimità” hanno spiegato in un comunicato gli avvocati che li assistono, Mario Esposito e Carmelo Leotta “comporterebbe un affievolimento della tutela del loro diritto alla vita, che resterebbe unicamente affidata alla conservazione della loro volontà di vivere, a prescindere da un giudizio oggettivo di gravità delle loro condizioni, insito nella necessità del trattamento di sostegno vitale”. Uno dei malati, Dario Mongiano, 62 anni, di Moncalieri (Torino) intervistato da Repubblica, ha spiegato la sua posizione. “Ritengo che la mia vita sia uguale nella sua dignità quella di tutti gli altri credo che questo venga ribadito anche dallo Stato in cui vivo. La vita è un bene indisponibile. Aiutateci a vivere superando il dolore, non dateci la morte quando non ce la facciamo più”.
Mario Esposito è ordinario di diritto costituzionale nell’Università del Salento e docente alla Luiss di Roma. Parlando dell’udienza pubblica di domani, la definisce “udienza legislativa”. Una definizione che potrebbe suonare strana ma così non è, ci spiega, e il perché riguarda il ruolo assunto dalla Corte Costituzionale.
In una intervista a Repubblica Dario Mongiano ha fatto questa osservazione: se l’aiuto al suicidio fosse legittimo e non punibile, la sua vita varrebbe di meno. Ovviamente lei condivide questa osservazione. Perché?
Mongiano ha colto perfettamente uno dei punti nodali della questione. Finora, in base alla sentenza n. 242/2019 della Corte Costituzionale, l’aiuto al suicidio risulta non punibile ove la persona che lo richieda si trovi, tra le altre condizioni, sottoposta a trattamenti di “sostegno vitale”. Una nozione tutt’altro che ben definita, in quanto vi rientrano anche la nutrizione e l’idratazione cosiddette artificiali, e che, se teniamo presenti i casi in relazione ai quali si è formata la giurisprudenza costituzionale, evoca un elemento di “essenziale artificialità” del ciclo vitale della persona.
Quindi?
Laddove questo requisito venisse meno, ne risulterebbe che la condizione di malattia irreversibile determinerebbe una “minusvalenza” della vita rispetto a quella delle persone sane. Ecco perché Mongiano ha ragione.
Voi e i vostri assistiti non state negando il diritto di autodeterminazione, cioè la libertà del paziente di porre fine alla propria vita?
Mi pare opportuno in primo luogo sgombrare il campo da un equivoco. Attualmente, ed anche qualora la Corte dichiarasse fondata la questione di cui si discuterà domani, il suicidio assistito non configura affatto una forma di autodeterminazione. I soggetti che si trovano nelle situazioni “tipizzate” dalla Consulta hanno diritto di chiedere che la loro condizione esistenziale venga valutata dalle strutture del SSN e, dove queste ritengano che tale condizione risponda ai parametri di degradazione tratteggiati dalla sent. n. 242/2019, quelle persone potranno ottenere, dai medici che volontariamente vi si prestino, l’aiuto a porre termine alla propria vita. Risulta tuttavia del tutto assente l’indispensabile garanzia del controllo giurisdizionale sulla complessa decisione del SSN su istanza del malato, che implica ben più che una limitazione della libertà personale, per la quale la Costituzione prevede riserva di legge e riserva di giurisdizione. Ma un altro punto merita di essere sottolineato.
Quale?
L’unica genuina espressione di autodeterminazione è il suicidio portato a compimento individualmente, che però resta un fatto e non un diritto. È diffusa l’idea secondo cui la vita sarebbe oggetto di un diritto, quasi che fosse possibile dissociarlo dal vivente come un bene in sua disponibilità. Si tratta di un’affermazione concettualmente contraddittoria rispetto alla tutela della persona.
Per quale motivo?
In primo luogo, perché la vita è il vivente, che, in quanto tale, è il presupposto del diritto e dei diritti. In secondo luogo, perché vivere genera rapporti di affidamento in capo ad altre persone, e vi è quindi anche un profilo di doverosità della vita: il vivente è il portato di un atto generativo, e si costituisce pertanto, pur essendo l’espressione massima di soggettività, come un “dato” fondativo del consorzio umano.
Insomma, la tutela della persona è inseparabile dal “noi”, questo sta dicendo?
Sì. Infatti, terzo ma non ultimo punto, la questione di cui si discute riguarda la liceità della cooperazione di terzi in un atto auto-omicidiario. Ma l’intero impianto costituzionale italiano è fondato sui doveri di solidarietà conservativa di tutti i consociati, anche e anzi soprattutto nei confronti delle persone che versino in condizioni fisiche o psichiche di difficoltà.
Lei ha sostenuto sulle nostre pagine che il giudice costituzionale si è da tempo sostituito al legislatore. Lo pensa anche a proposito di questo caso?
Mi pare evidente, anche dalle motivazioni della Corte nella sequenza che lega l’ordinanza n. 207/218 alla sentenza n. 242/2019, che si sia trattato di un intervento di precaria surrogazione del giudice delle leggi nelle funzioni del Parlamento. Non l’unico, per la verità. Al di là di considerazioni politologiche o sociologiche, riguardanti la mancanza di sensibilità del legislatore alle domande provenienti dalla collettività, si tratta di uno spostamento delle coordinate costituzionali estremamente problematico.
Perché lo definisce in questi termini?
Mi limito ad una considerazione: con quali strumenti e in base a quali valutazioni la Corte Costituzionale può “pesare” la consistenza degli interessi che non sarebbero sufficientemente rappresentati in sede parlamentare e richiedano dunque nuove norme?
È più grave la supplenza legislativa della Corte oppure l’inerzia del legislatore?
Si tratta di fenomeni di reciproca implicazione, che andrebbe in qualche modo regolata per prevenire o dirimere conflitti ai massimi livelli dell’organizzazione statuale. Va comunque tenuto presente che il principio di sovranità popolare assegna la primazia agli organi direttamente rappresentativi della comunità.
Ma il Parlamento tace. È per questo che lei ha definito l’udienza del 26 marzo come “udienza legislativa”?
Sì, perché il Gip di Milano, che ha sollevato la questione di legittimità costituzionale, chiede alla Corte di riformare la sentenza paralegislativa del 2019, peraltro in violazione dell’art. 137 Cost., che sottrae le decisioni della Consulta ad ogni impugnazione. Qualora una domanda simile fosse ritenuta ammissibile, sarebbe allora necessario garantire almeno quel tanto di istruttoria consentita dalla partecipazione di soggetti che vi si oppongano, affinché il quadro sia quanto più ampio possibile. In altri termini, la Corte dovrebbe condurre tali udienze allo stesso modo di quanto accade in Italia con le audizioni delle commissioni parlamentari, o nel Regno Unito con le udienze legislative.
Mongiano racconta di aver superato i momenti bui grazie alle persone che ha avuto accanto. Cosa dice questa presenza, comune in tante famiglie, silenziosa ma tenace, al nostro legislatore?
Pone in chiaro un elemento che già gli esperti di cure palliative ripetono da tempo: nella più gran parte dei casi la terribile domanda di morte è causata dal timore della persona malata di essere di peso per i congiunti. È la paradossale domanda di un gesto estremo di cura.
Lei e il prof. Leotta assistete quattro persone affette da patologie inguaribili che rappresentano una smentita vivente della sensatezza del suicidio assistito. Perché lei ha accettato?
Come giurista, perché sono profondamente convinto che ripugni al nostro sistema costituzionale – ma direi più ampiamente ai grandi principi sottesi al nostro ordinamento – l’introduzione del suicidio assistito. A maggior ragione, quindi, ritengo che non vi sia spazio alcuno per un ampliamento delle ipotesi delineate dalla Corte nel 2019. Ad ulteriore riprova, segnalo che i ddl presentati in Parlamento per la disciplina generale di tale “istituto” si riducono a pochi articoli, con ampi rinvii alla normazione secondaria, ossia i decreti ministeriali.
Perché questa osservazione?
Tale limitatezza si deve al fatto che l’introduzione del suicidio assistito richiederebbe un’opera di revisione dell’intero sistema giuridico, a causa dei moltissimi nessi che ovviamente legano l’evento fondamentale della morte ad un numero elevatissimo di fattispecie, non soltanto penali.
Per chiudere: qual è la posta in gioco, sotto il profilo culturale, di questo caso?
Lei mi chiede di dare brevi cenni sull’universo, non mi pare il caso neanche di provarci. Mi limito soltanto ad avvertire che le conseguenze di questo slittamento di significato e di rango giuridico della vita ha conseguenze enormi, davvero devastanti. Assistiamo quotidianamente ad un deprezzamento della vita, soprattutto quanto alla rappresentazione negativa che se ne dà, spesso indotta, colpendo giovani e giovanissimi con una frequenza drammatica.
(Federico Ferraù)
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