La storia di Lola è simile a quella di tante altre persone affette da SLA. Ma ci colpisce in modo speciale il suo sogno di bambina attratta dalla danza classica: fin da quando era piccolissima voleva fare la ballerina e diventare più tardi maestra di ballo. Un sogno di leggerezza e di grazia, ma anche di disciplina e di esercizio costante. Poi la diagnosi di SLA ha fatto a pezzi quei sogni, li ha distrutti poco a poco, come accade con tutte le patologie neuro-muscolari, a carattere progressivo, ancora oggi sprovviste di terapie specifiche. Una diagnosi che contiene una prognosi con cui è difficile misurarsi, perché ha un esito ben conosciuto nella sua drammaticità. Qualcosa che giunge come un macigno al cuore di tutti noi, per metterci a tu per tu con la nostra coscienza, con i limiti attuali della scienza e con l’infinita capacità di sperare che abita nel cuore di tutti noi.



La condizione di Lola è cambiata radicalmente, da quando ha appreso di essere affetta da SLA, una malattia che l’ha costretta prima sulla sedia a rotelle e poi a letto; la sua vita è legata a due supporti vitali: la nutrizione parenterale e un respiratore studiato apposta per lei. Sarebbe stato facile disperarsi, chiedere a gran voce di voler morire, incontrando facilmente il consenso di un gran numero di persone, che lungi dal giudicarla avrebbero fatto le sue stesse richieste. Ma Lola ha tenuto duro e per 27 anni ha lottato con tutta l’intelligenza e la sensibilità di cui era capace: ha scritto cinque libri, ha curato otto rappresentazioni teatrali, ha rilasciato interviste radiotelevisive e articoli giornalistici, ha fondato un’associazione di volontariato: “Amici di Lola”. Felice, perché ogni volta riusciva a creare bellezza e armonia intorno a sé. E questo era sufficiente per continuare a vivere con grinta e determinazione.



I costi della sanità

Ma due settimane fa qualcosa si è spezzato dentro di lei e Lola vuol buttare la spugna. Sembra incredibile, ma da quattro mesi a lei e alla sua famiglia non è stato corrisposto l’assegno di cura a cui avrebbe pienamente diritto; un assegno per altro insufficiente a pagare l’assistenza qualificata di cui ha bisogno giorno e notte. Ma ora anche quell’assegno, vero e proprio sostegno vitale, non c’è più. “Motivi burocratici… Ritardi nell’accreditamento del finanziamento statale alla regione”, così si giustifica il Comune, davanti ad una persona che non è assolutamente in condizione di far fronte ai costi della malattia. E a Lola non resta che chiedere di morire.



Il vero paradosso però è che, mentre per Lola non ci sono risorse, si cercano risorse per aiutare le persone a morire. Si insiste sul consenso informato, conditio sine qua non di chi combatte per legittimare il suicidio assistito, ma nessuno tiene conto del consenso informato di chi vuole continuare a vivere. Ci si batte a colpi di sentenze della Corte Costituzionale per sottolineare la distinzione tra suicidio assistito ed eutanasia, ben sapendo che tra di loro ci sono confini labilissimi, quasi inesistenti. Ma in buona sostanza si mettono in moto tutti i meccanismi possibili per permettere, a chi lo desidera, di morire, come sia, dove sia. Ovviamente a carico dello Stato, del nostro SSN, già stremato da richieste improprie, a cui si pone come ultima barriera la famosa eutanasia, perché – si dice – esiste un diritto a morire, magari dignitosamente, ma non si sottolinea mai abbastanza il diritto a vivere con la dignità che ognuno merita. Una dignità infinita. Eppure, Lola è costretta a piegare il suo diritto alla vita, il suo amore per la vita, per fare largo ad un presunto diritto alla morte, perché per lei non ci sono risorse sufficienti. E quell’eutanasia, che a parole nessuno dice di volere, diventa un diritto che nei fatti molti cercano di legittimare, per esempio sottraendo risorse alla vita per investirle nel diritto a morire, quando si vuole e come si vuole. Per paura del dolore, della solitudine, della perdita di senso.

Nutrire la voglia di vivere

Lola voleva vivere fino a due settimane fa, ma è bastato sottrarle l’assegno a cui aveva diritto per farla piombare in un abisso di disperazione che coinvolge anche la sua famiglia, già stremata da decenni di indifferenza, di aiuti insufficienti, e di evidenti ingiustizie. L’esperienza del dolore per essere sopportabile ha bisogno di costanti e continui aiuti alla concretezza della propria volontà di vivere. Voler vivere, in condizioni di oggettiva complessità, richiede aiuti, affettivi ed effettivi, speciali. Qualcosa l’ha spinta verso la consapevolezza di chi si sente immerso in quella cultura dello scarto di cui tanto parla papa Francesco. A nessuno importa più se io vivo o e io muoio… Quante parole per legittimare la cultura di morte che i fautori del suicidio assistito e dell’eutanasia barattano con una presunta cultura del consenso informato. Ma chi ha chiesto a Lola se voleva continuare a vivere, di cosa avrebbe avuto bisogno, di quale rete di servizi avrebbe dovuto dotarsi il SSN per venire incontro alle sue esigenze?

Sembra incredibile come il desiderio di morte si scateni, nel caso di Lola e di molti altri pazienti, dopo anni di sofferenze silenziose in cui i pazienti sono lasciati andare alla deriva, in una sorta di lager psicologico che ricorda molto da vicino perfino quelle delle carceri. Ma contro il suicidio in carcere assistiamo ad una vera e propria mobilitazione dell’opinione pubblica. Contro il suicidio dei pazienti cronici, lungodegenti, prigionieri nel loro stesso corpo, non solo non insorgiamo, ma ci chiediamo cosa possiamo fare per agevolarlo, per renderlo più dignitoso, invece di batterci per evitarlo. Eppure sono entrambi suicidi, uno forse più assistito dell’altro. Ma a nessuno viene in mente di proporre ad un carcerato un kit per suicidarsi senza ostacoli. Istintivamente resistiamo a questa volontà di morte del carcerato e pensiamo che un’ampia parte della responsabilità sia del sistema, del modello carcerario o perfino dello Stato.

Nel caso dei malati la cosa si capovolge; qui la responsabilità è sempre del sistema, del SSN, ma solo perché non aiuta a morire chi lo desidera. E nessuno può negare che anche il carcerato desideri farla finita, posto che è lui stesso ad organizzare la propria morte. Nessuno però gli offre un aiuto di qualsiasi genere e se lo facesse ci scandalizzeremmo e chiederemmo di tornare al vecchio articolo 580 del CP, abrogato dalla Corte con una certa velocità e archiviato come parzialmente incostituzionale. Sono i paradossi del nostro tempo.

Forse più che andare avanti con la battaglia per l’eutanasia, comunque la si voglia chiamare, dovremmo fare un passo indietro. Amare la vita, la nostra e quella degli altri, esige un impegno chiaro, forte e coraggioso a nutrire la vita in tutti i modi possibili: dall’assegno a cui si ha diritto, per ottenere le cure indispensabili per vivere, al supporto vitale di una psicoterapia illuminata e positiva, alla creatività ingegnosa di chi sa che per affrontare i lunghi anni di una malattia cronica e degenerativa serve un’infinita capacità di rilanciare il diritto alla vita senza mai fargli mancare nulla in termini fisici, affettivi, e spirituali, ma anche economici, organizzativi e sociosanitari.

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