È di pochi giorni fa una storica decisione della FNOMCEO, per cui in seguito alla sentenza 242, emessa nel 2019 dalla Corte costituzionale, la Federazione Nazionale dei medici ha informato che non è più punibile il medico che assista un paziente, tenuto in vita con trattamenti di sostegno e affetto da una patologia irreversibile, che decida di ricorrere al suicidio. Teoricamente sembrerebbe un semplice allineamento del Codice deontologico dei medici a una Sentenza della Corte costituzionale. Una sentenza che trova il suo fondamento nel diritto all’autodeterminazione individuale, previsto dall’art. 32 della nostra Costituzione, in merito ai trattamenti terapeutici. Un diritto che era già stato sottolineato dalla giurisprudenza, con le pronunce sui casi Welby ed Englaro, ma che aveva assunto forza di legge il 22 dicembre 2017 con l’approvazione del ddl 219: Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento, che sancisce in modo espresso il diritto della persona capace di rifiutare qualsiasi tipo di trattamento sanitario, ancorché necessario per la propria sopravvivenza, compresi quelli di nutrizione e idratazione artificiale, nonché il divieto di ostinazione irragionevole nelle cure, individuando come oggetto di tutela da parte dello Stato la dignità nella fase finale della vita.



In definitiva la FNOMCEO si pone come un quarto passaggio, apparentemente obbligato, dopo le due sentenze della Corte di Cassazione, quella Englaro e quella Welby, che hanno rappresentato il quadro di riferimento culturale entro cui si è mosso il Parlamento per la elaborazione della legge sulle cosiddette DAT. Dall’approvazione di questa legge, i passaggi successivi sono apparsi vincolanti sia per la Corte Costituzionale che per la FNOMCEO. Come se tutto fosse stato già scritto in quella norma e il resto non fosse altro che una naturale applicazione. Eppure la rivoluzione che si compie sul quadro culturale e valoriale è tale da capovolgere anni, o forse è lecito dire secoli!, di etica e di deontologia medica, oltre che di prassi medica, a cominciare dallo stile relazionale tra medico e paziente.



Il diritto all’autodeterminazione del paziente avrebbe archiviato il principio di beneficienza, principio-cardine dai tempi di Ippocrate, tacciato non solo di paternalismo ma di vera e propria tirannia; in altri termini il medico per secoli si sarebbe arrogato il diritto-dovere di essere il protagonista unico e indiscusso di una decisione che trattava il malato come oggetto e non come soggetto consapevole. La storia della medicina mostra, al di là di ogni ragionevole dubbio, come questo rischio, se c’è stato e quando c’è stato, è sempre limitato a casi sporadici, mentre una ben diversa cultura poneva il medico al servizio del paziente, con un impegno costantemente rinnovato di studio e di ricerca, per individuare le migliori soluzioni possibili.



Ma la conclusione a cui è pervenuta la FNOMCEO sarebbe avvalorata anche dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (CEDU), che avrebbe riconosciuto un’evoluzione nell’interpretazione degli artt. 2 e 8 della stessa CEDU, che riconoscono e garantiscono, rispettivamente, il diritto alla vita e il diritto al rispetto della vita privata, Dalla loro evoluzione sarebbe scaturito il diritto di ciascun individuo a decidere con quali mezzi e a che punto la propria vita finirà. Quindi, secondo la Corte Costituzionale, il bene giuridico protetto dalla norma denunciata andrebbe oggi identificato, non già nel diritto alla vita, ma nella libertà e consapevolezza della decisione del soggetto passivo di porvi fine, evitando influssi che alterino la sua scelta. La rivoluzione nel rapporto medico-paziente compie quindi un giro di 180 gradi, passando dall’obbligo di tutelare il diritto alla vita del paziente all’obbligo di garantire la sua autodeterminazione anche rispetto alla volontà di por fine alla sua vita.

Se l’aiuto al suicidio cessa di essere reato perseguibile per legge, allora il medico diventa colui che per primo e con maggior competenza di chiunque altro accompagnerà il malato in questo itinerario di morte, anticipandone la fine e ponendo un termine irreversibile alle sue sofferenze. Secondo la giurisprudenza della Corte dei Diritti umani europea, è affidata ai singoli Stati una valutazione delicatissima, ossia la verifica che l’eventuale liberalizzazione del suicidio assistito possa far sorgere rischi di abuso a danno dei pazienti più anziani e vulnerabili. Unica condizione: avere la certezza che l’esecuzione di questo proposito estremo sia riservata esclusivamente all’interessato, così da assicurare fino all’ultimo istante l’efficacia di un possibile ripensamento.

La modifica del Codice di Deontologia appena approvata va letta nella sua gravità proprio alla luce di ciò che il Codice rappresenta per i suoi iscritti: il codice di deontologia medica è un corpus di regole di autodisciplina predeterminate dalla professione, vincolanti per gli iscritti all’ordine che a quelle norme devono quindi adeguare la loro condotta professionale. La dichiarazione di Filippo Anelli, presidente della FNOMCEO appare aperta a contraddizioni difficilmente risolvibili nel giorno e nell’ora in cui i medici decideranno di attuare questa forma di suicidio assistito, in cui sono loro i primi assistenti del malato che intende suicidarsi. “La libera scelta del medico di agevolare, sulla base del principio di autodeterminazione dell’individuo, il proposito di suicidio autonomamente e liberamente formatosi da parte di una persona… – secondo i criteri fissati dalla sentenza 242/19 della Corte Costituzionale – … va sempre valutata caso per caso e comporta, qualora sussistano tutti gli elementi sopra indicati, la non punibilità del medico da un punto di vista disciplinare. Abbiamo scelto di allineare anche la punibilità disciplinare a quella penale, in modo da lasciare libertà ai colleghi di agire secondo la legge e la loro coscienza.

Ora il riferimento alla legge 219 appare quanto mai ambiguo, dal momento che è proprio quella legge che giustifica, nella sua intima distorsione il suicidio assistito, o ancor più chiaramente medicalmente assistito. Continua Anelli nella sua dichiarazione: Restano fermi i principi dell’articolo 17, del Codice deontologico, secondo i quali il medico, anche su richiesta del paziente non deve effettuare né favorire atti finalizzati a provocarne la morte. Ma come può il presidente della FNOMCEO credere che si possa contestualmente dire che il medico non deve effettuare né favorire atti finalizzati a provocare la morte e poi dichiarare la non punibilità di chi provoca la morte del paziente? E ancora come può non cogliere la contraddizione tra chi, pur ponendo dei limiti, definisce un’area entro la quale è lecito favorire il suicidio di un malato, assisterlo mentre lo compie, e affermare che l’incriminazione dell’aiuto al suicidio non è, di per sé, in contrasto con la Costituzione ma è giustificata da esigenze di tutela del diritto alla vita, specie delle persone più deboli e vulnerabili?

Difficile non tener conto di quanto sta accadendo in Olanda, dove la legge è in atto da poco più di 10 anni, e dove sono in aumento le richieste, tutte debitamente accolte, di aiuto al suicidio in pazienti gravemente disabili, depressi, dementi. Come si può dire che l’ordinamento intende proteggerle evitando interferenze esterne in una scelta estrema e irreparabile, come quella del suicidio, quando non si viene incontro ai loro bisogni reali di assistenza concreta, continuativa, socio-economica oltre che medico-infermieristica? È in atto una vera e propria commedia degli equivoci, o meglio tragedia degli equivoci, in cui non si vuole riconoscere che sono stati commessi gravi errori anche sul piano normativo; ma per giustificare quegli errori si va aprendo una voragine sempre più profonda, in cui scivoleranno un po’ alla volta proprio le persone più fragili, quelle per cui il principio di autodeterminazione corre il rischio di restare una grande illusione.