Che sul fine vita il dibattito sia particolarmente incandescente è un fatto noto, anche perché si intrecciano diverse linee di intervento, una sorta di quadrivio in cui da un lato c’è la proposta di legge Bazoli sul fine vita che attualmente scalpita in Senato per ottenere la sua approvazione; dall’altro c’è il pressing di Marco Cappato a cui non sfugge nessun caso di pazienti che implorano la sua “compagnia” per andare a morire in Svizzera (non a caso è recentemente intervenuta la Corte Costituzionale nel tentativo di definire cosa si possa e si debba intendere per trattamento vitale); e infine c’è la giostra delle varie leggi regionali, che, anche se sistematicamente bocciate, non perdono l’occasione per far sentire la voce delle rispettive Regioni che reclamano, almeno su questo punto, la loro “autonomia differenziata”.



Una babele non da poco, che crea una innegabile confusione oggettiva. Pur concedendo a tutti e ad ognuno il diritto della buona fede, il desiderio di andare incontro al dolore e alle sofferenze dei pazienti, con il massimo rispetto per la loro volontà, a tutela del principio di autodeterminazione, fondamento della legge 219/2017, è evidente come una parte del caos scaturisca proprio da questa legge: “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento”. Finora ogni tentativo di far chiarezza e di sciogliere dubbi ed incertezze ha ottenuto l’effetto opposto. A cominciare dalla famosa sentenza 242/2019 della Corte Costituzionale, che per assolvere Marco Cappato depenalizzò l’articolo 580 del Codice penale, quello che per l’appunto puniva il suicidio assistito, aprendo nuove strade all’eutanasia. La sentenza dichiarava l’illegittimità costituzionale dell’art. 580 CP “nella parte in cui non esclude la punibilità di chi, con le modalità previste dagli artt. 1 e 2 della legge 22 dicembre 2017, n. 219 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento)…” etc.



Quello che forse non ci si aspettava in un momento di massima confusione come l’attuale è l’intervento della Pontificia Accademia per la Vita, che ha elaborato un “Piccolo lessico del fine vita”, con l’introduzione di mons. Vincenzo Paglia, presidente dell’Accademia. Attraverso una serie di voci, che vanno dalle “cure palliative” alla “eutanasia”, il testo vuole contribuire, con un linguaggio chiaro, comprensibile anche ai non addetti ai lavori, a chiarire e quindi poter utilizzare in modo corretto i termini di chi cerca di districarsi in queste tematiche.

Secondo Paglia si vuole evitare un uso impreciso dei concetti comunemente utilizzati nel dibattito, da quello scientifico a quello politico, da quello socio-assistenziale a quello mediatico, che investe tutta la pubblica opinione. La garanzia dovrebbe essere offerta dall’esperienza e dal livello culturale dei vari redattori. Ma senza nulla togliere alla loro qualità scientifica, occorre anche riconoscere che Parlamento, Corte Costituzionale e perfino Governo, quanto a livello scientifico dei redattori delle diverse norme, possono contare su personaggi accuratamente selezionati di indiscussa competenza. Eppure, la babele non solo dei linguaggi, ma anche dei concetti, continua a creare un’indiscussa e indiscutibile confusione. Troppo complessi i concetti, troppo manipolabili i dati, troppo faziose le posizioni.



La babele dei linguaggi, dietro cui si annidano posizioni evidentemente contrastanti sul senso e sul significato della vita e della morte, contribuisce a rendere sempre meno comprensibile il dibattito, a qualsiasi livello, creando tensioni insormontabili che rendono difficile prendere decisioni, riconosciute da tutti come legittime ed autorevoli. Soprattutto quando è in gioco una vita umana o la stessa approvazione della legge sulla “eutanasia”.

Forse per questo la Pontificia Accademia per la Vita ha pubblicato, con la Libreria Editrice Vaticana, una guida, attualmente solo in italiano, inviata a tutti i vescovi italiani ma non ancora disponibile per tutti. Infatti, pur avendola cercata, almeno per ora non è stato facile poterne entrare in possesso. La guida dovrebbe aiutare i fedeli a discutere le “implicazioni etiche, religiose e morali” relative all’eutanasia, al suicidio assistito e ad altri argomenti controversi sul fine vita, evitando “quella componente di disaccordo che dipende da un uso impreciso delle nozioni implicite nel discorso”.

Gli argomenti – si dice nelle premesse – “sono presentati attraverso la lente della comprensione cattolica e sono collegati da diversi principi fondamentali, come il significato cristiano della vita, della morte, della libertà, della responsabilità e della cura”. Ciò che maggiormente sorprende oggi è proprio la difformità delle posizioni nel mondo cattolico per alcuni aspetti e nel mondo scientifico per altri, con un’oggettiva difficoltà a raggiungere posizioni condivise. Per di più la guida copre una grande varietà di questioni, tra cui il coma, le cure palliative, la gestione del dolore, l’eutanasia, la donazione di organi e la “nutrizione e idratazione artificiale”. Solo quest’ultimo punto cinque anni fa raggiunse livelli di dissenso informato molto elevati e tutt’oggi la Consulta si è intrattenuta nel difficile e non risolto compito di definire quali siano i trattamenti vitali e in base a quali criteri vadano definiti.

Nelle note che accompagnano la pubblicazione della Guida si sottolinea di avere esortato i fedeli a perseguire un “dialogo sentito e approfondito” sui temi della vita piuttosto che “ideologie preconfezionate e di parte”. E questo è forse il nodo più difficile da sciogliere: quali sono le “ideologie preconfezionate e di parte” e a chi appartengono; con quale retropensiero da parte dei fautori del valore della vita, che merita di essere custodita senza alcun accanimento, ma anche senza alcuna manipolazione tipica della cultura dello scarto, e con quale premessa cara ai sostenitori dell’autodeterminazione, quando ci si trova in perfetta forma fisica e non si ha, almeno apparentemente, bisogno degli altri.

Sempre nelle note di accompagnamento al testo si sottolinea come negli ultimi anni la Chiesa cattolica abbia preso posizioni forti contro le politiche governative che svalutano la vita umana, come l’eutanasia. Papa Francesco ha esortato a rispettare la vita invece dell’eutanasia, invitando i fedeli ad “accompagnare le persone verso la morte, ma non a provocare la morte o a facilitare il suicidio assistito”. “Non si gioca con la vita, né all’inizio né alla fine. Non si gioca!”, ha dichiarato ai giornalisti lo scorso anno.

Il punto importante in questa fase così delicata che precede di poche settimane il dibattito parlamentare sulla legge è che non si cerchi un compromesso, ma si faccia luce sulla verità, a cominciare dall’ambigua operazione di riadattamento del titolo della legge. Il Parlamento sta discutendo di una legge sulla morte volontaria medicalmente assistita, dopo aver eliminato dal titolo anche la parola suicidio, perché evocatrice di drammi personali come la solitudine, l’abbandono, la paura del dolore e della sofferenza. Il paradosso della legge sta proprio nel titolo, in quel sottolineare la dimensione volontaria, come se questo giustificasse il venir meno della forma di alleanza più sacra: quella tra medico e paziente. E alla fine la morte arriva al paziente proprio attraverso il medico che lo assiste. C’è un’ironia quasi dissacrante nella scelta di queste parole, che suscita in chi riflette seriamente sulla legge tutti i paradossi della cultura contemporanea.

Non c’è dubbio che l’intervento della Accademia per la Vita giocherà un ruolo importante nella formazione dell’opinione pubblica, ma è lecito chiedersi se contribuirà davvero a fare chiarezza senza giocare né con le parole, ammorbidendole, per evitare l’impatto duro con i concetti che vita e morte contengono in sé stessi, oppure se finirà per annacquare il dibattito in una sorta di irenismo compiaciuto in cui si evita lo scoglio della verità, con l’unico scopo di portare a casa una legge che molti di noi non vogliono, proprio perché foriera di ulteriori divisioni e di un vistoso lievitare della confusione, come è accaduto e sta accadendo in Olanda, in Belgio, ecc. dove una cattiva legge ha moltiplicato i casi di eutanasia, addomesticando termini che restano intrinsecamente conflittivi.

In ogni caso leggeremo con il massimo interesse questo testo, senza pregiudizi ma anche senza accontentarci di soluzioni ambigue e tutt’altro che chiarificatrici, come già avvenne cinque anni fa con la legge 219/2017. Restano vive in noi le parole che trent’anni fa Giovanni Paolo II affidò all’enciclica Evangelium Vitae, n. 53: “La vita umana è sacra perché, fin dal suo inizio, comporta ‘l’azione creatrice di Dio’ e rimane per sempre in una relazione speciale con il Creatore, suo unico fine. Solo Dio è il Signore della vita dal suo inizio alla sua fine: nessuno, in nessuna circostanza, può rivendicare a sé il diritto di distruggere direttamente un essere umano innocente”.

E poco più avanti al n. 64: “La morte, considerata ‘assurda’ se interrompe improvvisamente una vita ancora aperta a un futuro ricco di possibili esperienze interessanti, diventa invece una ‘liberazione rivendicata’ quando l’esistenza è ritenuta ormai priva di senso perché immersa nel dolore e inesorabilmente votata ad un’ulteriore più acuta sofferenza (…) Ma fatte queste distinzioni, in conformità con il Magistero dei miei Predecessori e in comunione con i Vescovi della Chiesa cattolica, confermo che l’eutanasia è una grave violazione della Legge di Dio, in quanto uccisione deliberata moralmente inaccettabile di una persona umana. Tale dottrina è fondata sulla legge naturale e sulla Parola di Dio scritta, è trasmessa dalla Tradizione della Chiesa ed insegnata dal Magistero ordinario e universale”.

Ecco, dall’Accademia per la vita ci aspetteremmo, accanto alle dotte disquisizioni degli scienziati più esperti, anche parole come queste, dal momento che sono i cattolici i suoi primi interlocutori.

 

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