A un primo sguardo c’è poco da dire sulle elezioni comunali fiorentine. Il centrosinistra a trazione Pd come al solito vince. È così da sempre, dalla fine della “prima repubblica”, dalla scomparsa dei partiti che ricostruirono l’Italia nel dopoguerra.

Eppure, qualche nuova indicazione questa tornata elettorale la dice. Il contesto di fondo è noto, ma giova richiamarlo. Firenze è città benestante, che vive di rendita culturale ed economica, con tre grandi gruppi sociali a formare il nucleo centrale della ricchezza: quello che vive di turismo, quello del pubblico impiego, e i pensionati (il capoluogo toscano è una delle città con la popolazione più vecchia d’Italia). Domina una cultura diffusa “cattolico-democratica”  qualche anno fa la si sarebbe definita, più sbrigativamente, cattocomunista -, erede delle stagioni degli anni 60, che vede fondersi tradizioni pur diversissime: La Pira, don Milani, fanfaniani, don Mazzi, storie che con la crisi della Dc e la fine del Pci hanno trovato un contenitore politico vago, ma sufficiente, nell’attuale Pd. Firenze non produce più niente, né economicamente, né sul piano culturale. Le case editrici sono ormai un ricordo, da Le Monnier alla Nuova Italia, alla Marzocco e alla Sansoni, come sono un ricordo i caffè letterari e l’eccellenza universitaria; gloriosi giornali locali, come La Nazione, oggi boccheggiano.



Se questo è l’orizzonte invariato per lo meno da trent’anni, dei movimenti sotto traccia ci sono.

Il primo, evidente, è l’astensionismo. È impressionante: più della metà degli elettori non è andata alle urne. Sara Funaro, la prima donna sindaco – erede di una famiglia politica famosa, suo nonno fu il celebre primo cittadino Bargellini, democristiano, il “sindaco dell’alluvione”- è stata eletta al secondo turno con un’affluenza minore che al primo: 47,98% contro il 64,44%, ma con 4mila voti in più. Questo significa che da una parte ha funzionato l’appello identitario contro la destra “fascista”, ma dall’altro il centrosinistra, e il centrodestra, hanno pochissimo appeal.



D’altronde da una prima analisi sui flussi elettorali sembra che tra i non votanti del secondo turno vi siano il 60% della sinistra radicale, il 19,5% dei renziani, il 34% dei sostenitori di Cecilia del Re (ex assessore del Pd dissidente), il 24% di chi ha sostenuto Eike Schmidt e il 20% degli stessi elettori della Funaro!

Per quanto riguarda il centrodestra, c’è pochissimo da dire. Schmidt è stato bravo, la sua figura ha sfondato nella Firenze che conta, e il centrodestra è andato meglio delle altre volte. L’ex direttore degli Uffizi è stato sconfitto, ma non per colpa sua. La sconfitta va invece tutta attribuita alla mancata proposta politica del centrodestra e in modo particolare a Forza Italia. Fratelli d’Italia, erede del Msi, non ha infatti nessuna tradizione e radicamento nell’antifascista città di Firenze ed è totalmente priva di una classe dirigente (ha preso il 13,1% grazie alla Meloni); la Lega è un fenomeno di importazione che si è palesato solo negli ultimi anni. Ma queste precisazioni non valgono per Forza Italia, presente da quella lontana discesa in campo di Berlusconi, circa trent’anni fa. E in una generazione non ha costruito niente, nessuna parvenza di partito, nessuna presenza sul territorio, nessun rapporto con le categorie economiche, nessuna proposta politica, nessuna ideuzza di città. E i risultati si vedono. Forza Italia ottiene un misero consigliere comunale (290 preferenze) con il 4,2% dei voti pari a 7.267 voti.



La colpa del vuoto politico di Forza Italia parte da lontano. A Berlusconi e al suo braccio destro Denis Verdini infatti poco interessava la Toscana, a quei tempi rossa con percentuali bulgare, e molto invece il rapporto con quella parte dell’ex Pci che cercava una convivenza basata sugli interessi con il “nemico” (si rilegga in questa chiave la vicenda Monte Paschi).

Niente di male, per carità. Ma questo ha fatto sì che vi fosse una scarsa battaglia per contrastare l’egemonia culturale della sinistra, con in più un’altrettanto scarsa attenzione alla costruzione di un partito organizzato (concetto odiato da Berlusconi).

Così le elezioni locali per il centrodestra sono sempre state il riflesso di quello che avveniva a Roma. Con la dissoluzione delle ideologie, il trasformarsi delle classi in qualcosa di indistinto, l’evaporazione dei grandi aggregatori sociali – partiti, organizzazioni sociali, Chiesa – la trasformazione del lavoro, in pratica con la crescente struttura anomica e individualista della società, il richiamo della foresta è destinato a fare sempre meno presa sugli elettori non o meno ideologici, più fluidi.

E comunque a trarre vantaggio da questa situazione è la sinistra, perché l’ideologia dominante, che è sempre e solo quella di un mix ideologico neoliberale (o progressista liberale) o, detto altrimenti, di un radicalismo di massa (poco importa degli interessi che si muovono sotto) risulta alla fine più attrattiva.

Il lavoro che ci sarebbe da fare è esattamente l’opposto. Non l’appello identitario, ma la costruzione di una nuova attenzione per i problemi comuni e del territorio, a partire da un disagio sociale enorme – sì, enorme – destinato sempre di più a manifestarsi, come dimostra l’astensionismo, e come attestano gli stessi successi del centrodestra in molti comuni toscani ex roccaforti del Pd, a partire dalla città ex operaia di Piombino.

Lavoro duro, ma se il centrodestra non vuol essere una chimera dovrebbe ripartire da qui.

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