Se Giorgia Meloni non si è ancora decisa a designare Raffaele Fitto per la Commissione europea non è per divergenze politiche con i suoi vicepremier. Il sostegno è pieno, lo hanno ribadito più volte sia Matteo Salvini che Antonio Tajani. Avranno ben altro da parlare nel vertice annunciato per venerdì 30 agosto, dalla legge di bilancio ai vertici RAI, sino allo ius scholae che ha agitato a Ferragosto le acque della maggioranza.



Per la designazione, per di più, non serve neppure la formalità di un Consiglio dei ministri, che dovrebbe tenersi comunque prima del vertice a tre. Basta una comunicazione di Palazzo Chigi. No, se Meloni non ha ancora proceduto su Fitto è perché non è ancora giunta a una conclusione la trattativa con la riconfermata Ursula von der Leyen. Meloni ha sbandierato ai quattro venti di pretendere per l’Italia il rango di vicepresidente della Commissione (Gentiloni è stato il primo caso in cui il rappresentante italiano non l’ha avuto), unitamente a un portafoglio di peso. Ma il voto contrario di Fratelli d’Italia e Lega all’Europarlamento sul bis di von der Leyen ha complicato tutto. Quasi tutti i Paesi hanno già provveduto all’indicazione; ne mancano oltre all’Italia solo altri quattro, termine ultimo il 31 agosto.



Meloni non ha alcuna intenzione di privarsi di uno dei pezzi più pregiati del suo governo senza aver prima ricevuto precise rassicurazioni, per questo attende. Nei corridoi semideserti di Bruxelles si sussurra che il Governo italiano considererebbe un successo un portafoglio che al Bilancio unisse il controllo del PNRR. In alternativa si vocifera dell’Agricoltura. Meloni non sembra intenzionata ad assecondare la richiesta di von der Leyen di una doppia designazione, maschile e femminile, per garantire la parità di genere. In questo è in buona compagnia: sedici Paesi hanno indicato un nome maschile “secco”, e anche la Danimarca pare intenzionata a farlo.



Solo se il telefono dovesse portarle cattive notizie, la premier di malavoglia cambierebbe cavallo. E allora potrebbero spuntare i nomi di Elisabetta Belloni, buona per tutte le stagioni, magari per una delega inerente l’immigrazione, oppure quello di Roberto Cingolani, se si trattasse di un portafoglio in materia di digitalizzazione.

È lecito però domandarsi come si colmerebbe il vuoto che Fitto potrebbe lasciare nel Governo. Si tratta di un’autentica voragine: rapporti con l’Unione Europea, coordinamento del PNRR, politiche di coesione territoriale e politiche per il Sud, praticamente quattro ministeri in uno. Eppure Meloni è descritta come terrorizzata dall’ipotesi di un rimpasto: teme che si scoperchierebbe un vaso di Pandora incontrollabile di rivendicazioni incrociate fra i partner di governo. Teme anche che si finirebbe per discutere di nomi oggetti di critiche feroci, come quello di Daniela Santanchè, per via delle sue vicende giudiziarie.

Le voci si rincorrono e si accavallano. E fra le più plausibili circola proprio quella che Fitto potrebbe non essere sostituito affatto e le materie che ha sin qui gestito potrebbero essere redistribuite fra vari ministeri. Aiuta il fatto che formalmente il politico pugliese sia un “ministro senza portafoglio”: i dipartimenti da lui dipendenti sono tutti rimasti sotto il cappello della Presidenza del Consiglio dei ministri. Meloni non ha quindi bisogno neppure di assumere un interim, tutto tornerebbe sotto il suo controllo, consentendole di “spacchettarli”. Il PNRR potrebbe passare sotto l’egida del dicastero dell’Economia, magari nelle mani del fidato viceministro Maurizio Leo. Basterebbe designare un sottosegretario per i rapporti con la UE, magari un altro fedelissimo come Giovanbattista Fazzolari. In fondo nel governo Draghi le relazioni con Bruxelles erano tenute da Vincenzo Amendola, uno dei sottosegretari alla Presidenza del Consiglio, come è Fazzolari.

Al di là dei nomi, il vuoto che Fitto poterebbe presto lasciarsi alle spalle è molto politico. E come tale rappresenta un serio grattacapo per la premier. Ecco perché ogni mossa dovrà essere pesata con cautela. Parola d’ordine: non fare nulla che possa indebolire il governo.

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