Uno dei tratti distintivi del programma elettorale del centrodestra è rappresentato dalla flat tax. La Lega la immagina al 15%, Forza Italia al 23%, mentre Fratelli d’Italia propone di applicare la tassa piatta sugli incrementi di redditi rispetto all’anno precedente.

Per Luigi Campiglio, professore di Politica economica all’Università Cattolica di Milano, “l’introduzione di un’aliquota unica favorisce la chiarezza, la semplificazione e può favorire il recupero dall’evasione. Inoltre, può consentire di aumentare il potere d’acquisto dei cittadini contribuenti. Occorre, però, fare molta attenzione a mettere mano al sistema fiscale in modo così importante”.



Qual è il rischio principale che vede?

Se si agisce sul lato delle entrate, con la possibilità di ritrovarsi con una loro diminuzione complessiva, il rischio è quello di essere costretti poi a ridurre la spesa pubblica, in particolare sul fronte del welfare, della sanità, dell’istruzione, settori che dovrebbero ricevere semmai più risorse visti i tagli apportati nel corso degli anni. Credo possa essere interessante, rispetto a quello che stiamo dicendo, citare un episodio storico-economico. 



Prego.

Alla fine della Seconda guerra mondiale, in Gran Bretagna occorreva ridisegnare la struttura fiscale. Beveridge, considerato il padre del welfare state inglese, “contrattava” con Keynes e un allievo di quest’ultimo, Colin Clark, il modo migliore per farlo. Per il tipo di welfare che allora si immaginava venne fuori che l’aliquota ottimale per le imposte era all’incirca del 25%.

Un’aliquota non molto lontana da quelle della flat tax di cui si parla ora. Ma quanto il welfare inglese di allora è vicino a quello italiano di oggi?

Questo è in effetti un punto cruciale. Dagli anni 50 del secolo scorso c’è stato ovviamente sia un aumento delle entrate, grazie anche alla crescita economica, che delle uscite, dovuto in particolare all’aumento dei servizi sociali e all’emergere di spese, nate talvolta come temporanee per affrontare uno shock, diventate poi strutturali. La cosa importante da tenere a mente è che una flat tax potrebbe anche funzionare in modo “equilibrato”, sapendo però che se si tocca lo Stato sociale inevitabilmente ciò si va a incrociare con la capacità di spesa delle famiglie, con il rischio quindi di vanificare il beneficio che si potrebbe avere sul potere d’acquisto dei contribuenti derivante da un livello di tassazione più basso. 



Vede qualche altro rischio nell’attuazione della flat tax?

Tra le coperture viene indicata una revisione delle tax expenditures. Anche in questo caso occorre prestare molta attenzione, perché c’è sempre il rischio di dare con una mano, facendo pagare meno tasse, e togliere con l’altra se vengono meno alcune detrazioni e deduzioni. È importante poi capire quale sia l’unità di imposizione: la famiglia o il singolo contribuente?

In attesa di maggiori dettagli in merito, Armando Siri, considerato il padre della proposta di flat tax leghista, ha detto che l’aliquota del 15% riguarderebbe “le famiglie monoreddito fino a 55mila euro, quelle bireddito fino a 70mila euro e i single fino a 30mila euro”.

Mi sembra che sia una tripartizione sensata. Le soglie di reddito in questo schema hanno un ruolo importante ed è bene quindi che siano opportunamente tarate in modo che il sistema sia sostenibile e cercando anche di fare in modo che vi sia progressività.

Riguardo la progressività, Siri ha spiegato che sarebbe garantita da una deduzione fissa inversamente proporzionale al reddito e direttamente proporzionale al numero di familiari a carico. In buona sostanza, la deduzione sarebbe più alta per chi ha redditi più bassi e per chi ha più figli.

Anche questo mi sembra sensato, anche se bisognerebbe capire cosa accadrebbe all’assegno unico per i figli, che è stato appena introdotto nel nostro sistema e che, come ho detto in precedenti interviste, andrebbe potenziato: è importante che per le politiche familiari non vi siano risorse in meno rispetto a quelle già scarse di oggi. Credo poi vada mantenuta, e magari aggiornata in base a quelli che sono i dati sulla soglia di povertà, la no tax area, in modo che per i redditi sotto un certo importo non via sia alcuna imposta da pagare. Il tutto, però, con un’accortezza.

Quale?

Studiare bene “il salto” tra la fine della no tax area e l’inizio della flat tax in modo che non incida troppo sui redditi bassi. Grande attenzione in questo senso va data alle famiglie monoreddito e ai genitori soli con figli, soprattutto se donne: sono, infatti, le categorie che rischiano di scivolare più facilmente sotto la soglia di povertà.

Avrebbe quindi senso, nel caso, per ragioni di coperture, si decidesse di introdurre la flat tax in modo graduale, partire dai redditi più bassi.

Sì, mantenendo quelle differenziazioni ipotizzate tra famiglie monoreddito, bireddito e i singoli. Un punto chiave per una proposta di riforma fiscale è la concentrazione dei benefici sui redditi bassi, così da contrastare le disuguaglianze. In questo senso, se vengono mantenuti, anzi migliorati, i livelli dei servizi pubblici, una flat tax concentrata sui redditi bassi può funzionare. 

(Lorenzo Torrisi)

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