Nel pomeriggio del 14 settembre 2021 sono stati pubblicati i dati relativi all’inflazione generale e core dei beni al consumo degli Stati Uniti, e riferentesi ad agosto 2021 in tendenziale sull’anno. Abbiamo pertanto 4% per l’inflazione core e 5,3% per quella complessiva del paniere dei beni; il consensus di Wall Sreet aveva come aspettativa il 5,3% per l’inflazione complessiva e il 4,2% per quella core.



Invece, chi scrive aveva previsto il 5,7%-5,8%, avendo così un eccesso di sovrastima di circa lo 0,4%; va rilevato che a livello qualitativo il forecast delle borse era orientato al rientro dei valori inflattivi: dal 5,4% di luglio al 5,3% di agosto, mentre chi scrive era restato della convinzione del non abbattimento dei valori inflattivi (al minimo); stavolta, a livello quali-quantitativo, gli operatori di mercato hanno fatto pieno centro.



Inoltre, la posizione Fed era di un’aspettativa mediana del dato generale del 5,2%, con valori massimi del 5,6% e minimi del 4,8%. Però, si ha la netta sensazione che qualcosa non “quadri” come dovrebbe e soprattutto per due motivi iniziali; il primo è che nella decade centrale di agosto si è avuto un improvviso movimento speculativo sul dollaro americano che ha portato il barile Wti di petrolio anche a ridosso dei 60 dollari al barile, e comunque i valori per una decina di giorni non sono andati oltre i 67 dollari; difatti anche il cambio euro/dollaro aveva toccato quota 1,169. Tutto questo ha portato a un inatteso indebolimento delle pressioni sui prezzi al consumo e sulle aspettative: in buona sostanza questa incursione speculativa senza fondamentali solidi ha raffreddato dello 0,2-0,3% perlomeno gli aumenti, sennò non si andava comunque sotto il 5,6-5,5%.



Ma poi, seconda motivazione, oramai è tutto il trimestre estivo che l’inflazione è sopra al 5%, e questo dato ancora più dei mensili singoli ci fa vedere “un fenomeno inflattivo che si sta solidificando”; tra le altre cose, già il 15 settembre il barile Wti sta lambendo di nuovo in maniera preoccupante i 72 dollari.

Stiamo andando incontro, oltretutto, al periodo autunnale e invernale: freddo e riscaldamenti, entrata a regime pieno del lavoro in tutte le sue branche pubbliche e private, e quindi i trasporti, i servizi, ecc.

Qui incombe la variante delta del Covid-19, ma in modo un po’ spuntato rispetto alla pericolosità di 2-3 mesi fa; quindi, quello che fa paura non è più la variante delta in se stessa, ma la sua circolazione potenzialmente foriera di nuove e più sinistre variazioni che causerebbero sciagure e chiusure ulteriori, il che ci dice di quanto ancora sia sconosciuto il virus e di come sia e sia stata affrettata e tracannata la corsa biotecnologica e medica per fermarlo; questi aspetti fanno da sfondo alle varie “provocazioni e critiche” più o meno nobili, che uscite dalla porta rientrano dalla finestra, creando un quadro sociale perturbato e complicato.

Arriviamo perciò al dunque: sono queste “aspettative di salute pubblica” a raffreddare per ora le aspettative di un incremento più robusto dei prezzi da parte della generalità delle PMI statunitensi; in sostanza, si ha paura ancora, e così ci si fida e ci si affida alla Fed, grande ombrello protettivo e rassicurante.

Però, come già esternato in un precedente intervento, la sola politica monetaria ultraespansiva da sola non basta più; detto in altri modi, la politica dello stampare dollari in continuità emergenziale sta iniziando a perdere di efficacia, soprattutto se isolata. Mi sembra che dalla lettura delle varie agenzie di stampa venga fuori in maniera abbastanza piana che alla Fed si stiano preparando al brevissimo inizio del tapering e del suo annuncio; per la ripresa dell’economia americana ora servono altre cose: fiducia delle imprese e dei cittadini, fine della corsa dei prezzi delle materie prime con in testa il petrolio, disincagliare per bene alcune strozzature dei fattori dell’offerta di tipo logistico e organizzativo, mettere fine al pericolo Covid, non acuire tensioni internazionali di competizione geo.strategica.

Il 22 e il 23 di settembre si terrà la riunione del Fomc-Fed, ma il 4 ottobre c’è il consiglio assembleare dell’Opec +, e in questo intervento si da più valore di peso all’Opec + che alle decisioni Fed.

Si possono contare alcuni elementi a sfavore della crescita inflazionistica: sindacati non più forti come negli anni ’70 e ’80 e quindi con poco peso contrattuale di spinta sull’aumento dei salari, e in seconda battuta il ritiro dall’Afghanistan degli Stati Uniti che nel brevissimo e nel breve periodo libera l’utilizzo di una mole enorme di risorse ai desiderata e agli scopi della società civile, e per tale via favorendo una calmierata sui prezzi e sulla disponibilità dei fattori. Pertanto, si resta dell’opinione che anche il dato tendenziale del mese di settembre sull’anno non sarà inferiore già da ora al 5,5% e questo alla situazione attuale dei prezzi del petrolio e della disponibilità di molti fattori dell’offerta.

Insomma, non si ha un’immagine rassicurante del percorso inflazionistico nei mesi a venire; al contrario, si ipotizza che serva un grosso sforzo di monitoraggio, coraggio e analisi per domarla a poco a poco e farla rientrare. Ma per fare questo ci vogliono politiche economiche efficaci e visionarie, condotte con determinazione e tenacia.

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