In articoli precedenti è stata illustrata in maniera sommaria e sintetica la relazione tra prezzi e velocità della moneta, a dirsi l’equazione quantitativa: P (prezzi) * R (redditi reali) = M (moneta) * V (velocità di circolazione della moneta), dove V ci dice quante volte in un anno un’unità di moneta cambia di mano nel tessuto produttivo e di consumo di una qualsiasi società e nazione.
Da tale relazione si cercheranno di capire gli attuali accadimenti finanziari ed economici, con particolare riguardo ai fenomeni inflattivi; tocca aver presente, però, come si è evoluto il contesto macroeconomico e teorico dal 1800/1900 in avanti
L’equazione quantitativa fu concepita dagli economisti ottocenteschi, quando la produzione di un anno qualsiasi era abbastanza stabile, in quanto i processi produttivi erano lunghi, difficili da variare, il lavoro in fabbrica si era regolarizzato con precise scadenze tecniche e temporali, il progresso tecnologico esisteva, ma era lento. La stessa produzione agricola, nel settecento e nell’ottocento, tutto sommato, aveva raggiunto sostanziali forme di stabilità tra produzione e raccolti (vegetali) e consumi di carne. Quindi la velocità di circolazione della moneta era abbastanza standardizzata e costante, stante che abitudini di consumo e organizzazioni produttive non si potevano stravolgere con immediatezza e semplicità.
Anzi, per i classici liberali, la velocità della moneta si poteva considerare addirittura una costante, cosicché eventuali fenomeni inflattivi si sarebbero potuti verificare solo con massicce iniezioni di moneta nel tessuto economico; non a caso nell’Ottocento il fenomeno più grave a cui dovevano far fronte le economie erano le deflazioni: i prezzi di una produzione settoriale – dato il miglioramento tecnologico e organizzativo – si abbattevano e ciò metteva in difficoltà il settore industriale interessato che andava in crisi di utili e quindi fronteggiava lo spettro di chiusure; a dire il vero, oggigiorno l’opinione pubblica non si accorge che siamo di fronte a deflazioni di prezzi in interi settori industriali strategici e questo porta a un incremento irrisorio dell’inflazione complessiva.
Ad esempio, per la telefonia mobile, da notizie diffuse più o meno attendibili si sa che il prezzo all’origine dei fattori produttivi impiegati per produrre uno smartphone sia dell’ordine di 50/60 euro, mentre alla vendita il prezzo medio non è inferiore ai 400/450 euro (almeno per le maggiori aziende oligopoliste del settore); ciò significa che queste aziende dopo i primi lanci di mercato possono continuare a vendere con ritorni di utili elevatissimi anche abbattendo continuamente i prezzi, e per tale verso contribuendo a non far incrementare l’indice inflattivo del paniere complessivo di beni.
La componente finanziaria delle relazioni economiche nel 1800, al contrario, era ancellare rispetto all’economia reale, mentre nel mondo odierno – a dati del 2021 – su tutte le transazioni che avvengono in un giorno nel mondo, il 95% è di natura finanziaria e il 5% riguarda l’economia reale, e parliamo di valori complessivi giornalieri dell’ordine oramai di 1.500/2.000 miliardi di dollari; orbene, di questi solamente 60 miliardi sono scambi giornalieri a livello mondiale di beni e produzioni reali. Perciò, le crisi, gli scandali finanziari in genere nel 1800 coinvolgevano solo i diretti interessati e poco altro.
Però, nello svolgersi degli anni con tutte le modificazioni che si stavano sommando, si ebbe che dopo la Prima guerra mondiale l’organizzazione produttiva e lo sviluppo tecnologico diedero i primi segni di quelle accelerazioni che oggi viviamo nell’accezione più completa e anzi con radicali cambi di paradigma: l’informatica oramai aspetto della vita quotidiana che dal 2010 in avanti è entrata in profondità nell’organizzazione produttiva e di consumo. Allo stesso modo, anche il settore finanziario era cresciuto negli anni, e così dopo la Prima guerra mondiale non si poteva più considerare ancellare rispetto al tessuto produttivo.
È in questo scenario che nasce l’opera di Keynes, di Kaldor, a seguito soprattutto della grande depressione del 1929 che ebbe effetti diretti fino al 1934, e che in un certo qual modo fu la madre di sciagure tante e future. In questo orizzonte, Keynes apporta alla teoria una variazione epocale: la velocità della moneta non è influenzata solo dagli scambi produttivi e di consumo, ma al contrario risente di tutto ciò che avviene nel mondo della finanza, in quanto la moneta funziona da numerario (indice dei prezzi di tutti gli altri beni), funziona da mezzo di scambio, ma ultima e innovativa, funziona da riserva di valore della ricchezza, collega cioè il momento presente a quello futuro, dove, come già riportato in altri interventi, il collegamento tra presente e futuro è misurato dai tassi di interesse.
Quindi, alla fine, moneta e sua velocità di circolazione dipendono dai tassi di interesse: la moneta è essa stessa veicolo speculativo (più alti sono i tassi sui depositi bancari, più una persona detiene meno moneta presso di sé); oggi giorno , invece, si detengono quantità considerevoli di moneta sui conti correnti che hanno tassi negativi in quanto si hanno una serie di servizi reali che solo trent’anni fa la gente non immaginava neppure: non abbiamo bisogno di andare in banca per prendere soldi, possiamo pagare utenze in maniera autonoma, possiamo accedere ai servizi statali in modalità telematica pagando on line i diritti relativi, e via di seguito in un elenco lunghissimo di cose. Quindi, il conto corrente non rende, ma diventa un servizio che va pagato.
La velocità della moneta, allora, da natura quasi costante dell’economia classica diventa con Keynes una variabile che dipende dai tassi di interesse: V = V(i), con un tipo di relazione positivo: più alti sono i tassi di interesse, più alta è la velocità della moneta, dato che siccome la componente speculativa sottrae moneta al tessuto produttivo e di consumo, quella che resta per tenere i redditi allo stesso livello deve girare più velocemente. Solamente che i primi keynesiani diedero al tasso di interesse i dell’equazione in oggetto una sfaccettatura reale: lo concepirono cioè come non influenzato dagli aumenti dei prezzi nell’economia reale; a dirsi cioè lo immaginarono in prima battuta scollegato dall’inflazione.
Fu Irving Fisher a porre in modo chiaro la relazione macroeconomica fondamentale tra tassi di interesse e inflazione: i (tasso di interesse nominale) = r (tasso di interesse reale) + k (tasso di inflazione). Si ha pertanto che la velocità di circolazione della moneta non è influenzata più solo dalle dinamiche produttive e di consumo, ma è anche da tassi di interesse e inflazione; diventa quindi una variabile cruciale da definire e misurare, ma al tempo stessa difficoltosa da controllare e prevedere; movimenti non solo di crescita e decrescita, ma oscillatori, fibrillanti e con correlazioni non più univoche e stabili, com’è ampiamente dimostrato dalla dinamica dei vari aggregati M2, M3 monitorati oggigiorno costantemente dalle banche centrali, a seguito dell’adozione operativa da parte delle stesse della teoria delle aspettative di Lucas. In sintesi, l’ultima equazione riportata si trasforma nel modo seguente: i (tasso di interesse nominale) = r (tasso di interesse reale) + K (tasso di inflazione atteso) – k (tasso di inflazione effettivo). Come si vede entrano in campo le variabili attese nelle soluzioni delle equazioni
Quindi, al centro dell’analisi economica si pone in modo formale il meccanismo di formazione delle aspettative degli attori economici, ed è in base alle aspettative che poi vengono effettuate le scelte, come ad esempio l’adozione del Qe da parte della Bce.
(1- continua)
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