Nel pomeriggio del 13 ottobre 2021 sono stati pubblicati i dati relativi all’inflazione generale e core degli Stati Uniti, e riferentesi a settembre 2021 in tendenziale sull’anno. Abbiamo pertanto 4% per l’inflazione core e 5,4% per quella complessiva del paniere dei beni; il consensus di Wall Sreet aveva come aspettativa il 5,3% per l’inflazione complessiva e il 4,0% per quella core. Invece, chi scrive aveva previsto il 5,7-5,8% con intervallo minimo al 5,5% avendo così un eccesso di sovrastima tra lo 0,3% e lo 0,1%; va rilevato che a livello qualitativo il forecast delle borse era orientato a un sostanziale rientro tendenziale dei valori inflattivi: dal 5,3% di agosto al 5,3% di settembre, mentre chi scrive era restato della convinzione dell’innalzamento dei valori inflattivi, e va detto che a livello tendenziale le borse hanno scommesso da mesi su una transitorietà leggera del fenomeno, cosa che i dati di fatto vanno via via sconfessando. Inoltre, la posizione Fed era di un’aspettativa mediana del dato generale del 5,2%, con valori massimi del 5,4% e minimi del 5%.
Il seppur piccolo bias sovrastimante di questa analisi è dovuto essenzialmente al freno tirato di tante Pmi statunitensi nel ricarico dei prezzi al consumo, anche se qualcosa inizia ad allentarsi nel tenere i prezzi sotto controllo.
Si può con ragionevolezza affermare che la mole ancora enorme delle easing policy money da 120 miliardi di dollari al mese stia ancora contribuendo a dare nel breve periodo quella liquidità essenziale pagata a bassi tassi di interesse per fronteggiare costi industriali crescenti. Ma il meccanismo non solo sta venendo a fine in maniera amministrativa (annuncio tapering da metà novembre quasi certo), ma anche in maniera economica dato che le spinte dei costi a un certo punto devono essere bilanciate dai prezzi e non dai prestiti.
Inoltre, va ribadito ancora che al 14 di ottobre, giorno di redazione di questo intervento, il barile Wti del petrolio quota 81,20 dollari circa, con in più il fatto che da inizi ottobre è oramai costantemente sopra i 75 dollari; in buona sostanza se permane per tutto il mese questa dinamica per range dei valori citati, si può già da ora affermare che il dato inflattivo di ottobre che verrà pubblicato a novembre inizierà a lambire in maniera sostanziale il tasso del 6%, con valori minimi del 5,7% all’incirca.
Personalmente, invece, credo che le dinamiche salariali siano molto più spuntate degli anni ’70 per il loro impatto inflattivo, e ciò a causa di due motivazioni comunque già enucleate in un altro articolo:
1) I sindacati non sono più forti e ideologicizzati come negli anni ’70, e per tale motivo lo schema base della contrattazione salariale tra un monopolista (l’impresa) e un monopsnonista (i sindacati grandi e compatti) non è più valido, e per tale motivo oggigiorno sono comunque le imprese a imporre i prezzi salariali; si possono però ricavare da questa impostazione alcune implicazioni qualitative: incremento buste paghe sensibile per le risorse specializzate e a elevato valore aggiunto, bassa dinamica per i lavoratori ordinari e standard.
2) Negli anni ’70 agli inizi non esistevano gli ammortizzatori sociali nelle dimensioni e nella qualità di quelli presenti oggigiorno nelle moderne economie, e per tale motivo l’incremento dell’occupazione aveva un’incidenza totale sul tasso inflattivo, mentre oggi è derubricabile a circa il 30% del peso originario, dato che un disoccupato percepisce sussidi che vengono comunque spesi in beni di consumo.
Va poi ricordato che veniamo da una ventina di anni circa di bassi tassi inflattivi e per tale motivo gli stessi policy makers hanno scarsa dimestichezza operativa ed emotiva col fenomeno inflattivo oramai incipiente di questi mesi. Purtroppo per tutti, l’esperienza si acquista sul campo e la si acquista facendo anche molti errori come i tanti che si stanno iniziando a marcare: ad esempio, uno al momento che sembra essere il più macroscopico è la scarsa attenzione da parte della Fed ai fenomeni geopolitici mondiali che in questo momento si stanno dipanando; all’istituto americano in oggetto c’è secondo me ancora troppo evidente un atteggiamento di sufficienza nei confronti del mondo intero, come se tutte le leve sostanziali le avessero loro, alla Fed. Se ti sbagli e ti sbagli con un atteggiamento del genere, la paghi in maniera immediata in termini inflattivi, e la qual cosa sta accadendo.
Ribadisco pertanto un’opinione personale molto sentita e cioè che per iniziare a dare una quadra vera a questo mondo post-Covid è necessario un accordo fondamentale sui dossier più scottanti tra Usa e Russia. Solo dopo un nuovo progetto condiviso di medio periodo tra queste due nazioni si ritornerà ad avere situazioni economiche e finanziarie più conosciute e inquadrabili, e quindi gestibili.
Noi dell’Unione europea potremmo avere un grande ruolo nel permettere la fattibilità di questo nuovo accordo, facendo da ponte e da pontieri tra americani e russi. In seguito, date tutte le vicende traumatiche dovute al Covid e non solo, iniziare a ragionare europei, americani e russi sul ruolo effettivo da dare all’economia cinese e ai suoi sviluppi futuri.
Di nuovo, forte convincimento personale: Pechino sta giocando di forza e velocità di fronte a un mondo occidentale diviso, confuso e sbandante; ma sa che deve fare in fretta perché il tempo strategico a sua disposizione è in esaurimento; detto anche con altre parole: oltre al Covid, Pechino ora non esiterà con tutte le sue forze ad approfittare di una scomoda inflazione nei Paesi occidentali.
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