Non è comprensibile e neppure condivisibile. Decisamente no. La rilevazione di Istat diffusa lunedì mattina riconducibile al dato definitivo sull’inflazione di marzo non ha trovato il giusto e doveroso riscontro tra l’infinita moltitudine degli organi di informazione. Non pretendiamo di assistere a un significativo clamore, ma, almeno, a un onesto richiamo a gran voce contraddistinto, magari, da qualche autorevole commento. Questo poteva bastare. Invece non è accaduto. Nulla. Niente. Il vuoto. Eppure, l’oggetto di questa “lacuna” incorpora una serie di elementi molto rilevanti.
Il primo fra tutti: a marzo, l’indice nazionale dei prezzi al consumo per l’intera collettività (NIC) al lordo dei tabacchi ha confermato la propria diminuzione, ma, rispetto alla precedente stima provvisoria, ha registrato una flessione più marcata: -0,4% anziché -0,3%. Conseguentemente, beneficiando di questo miglioramento, anche l’aumento su base annua ha rivisto (in meglio) il proprio ammontare: dal 7,7% di fine marzo all’attuale 7,6%.
Ne siamo consapevoli: un decimale. Un solo decimale, ma questa volta è a favore del Paese. È bene ricordarlo. Non solo. La variazione negativa registrata si colloca in una più ampia analisi d’insieme: infatti, negli ultimi due anni (rif. 25 rilevazioni) si è potuto assistere a solamente due parziali negativi mensili (settembre 2021 e aprile 2022) e a un unico saldo nullo nel maggio 2021. Osservando, inoltre, alle singole percentuali, si può notare come quella del 2021 ammonta a un -0,2% mentre quella dello scorso anno a -0,1%. Oggi, invece, il quantum è sicuramente più consistente. È oggettivo.
Proseguendo. Un altro aspetto positivo (dimenticato dalla cronaca) è quello sull’“inflazione di fondo” che, negli ultimi mesi, ha rubato la scena alla sua più ampia componente generale. Anche per questo ostacolo il bilancio è migliorato: +6,3% anziché il precedente +6,4% (rif. al netto degli energetici e degli alimenti freschi).
A commentare questo “positivo aggregato” è Istat: «A marzo prosegue la fase di rapido rientro dell’inflazione (scesa a +7,6%), guidata dalla dinamica dei prezzi dei Beni Energetici, sia della componente regolamentata sia di quella non regolamentata (entrambe in netto calo su base congiunturale). Emergono inoltre, nonostante il permanere delle tensioni al rialzo nel comparto dei Beni alimentari non lavorati e dei Servizi, segnali di esaurimento della fase di accelerazione che, nei mesi scorsi, aveva caratterizzato la dinamica dei prezzi di ampi settori del paniere. Dopo la progressione che ha caratterizzato il 2022, l’inflazione di fondo si stabilizza al +6,3%. Infine, i prezzi del “carrello della spesa” rallentano su base tendenziale, scendendo a +12,6%». Ebbene: vorremmo leggerne altri, molti altri, di simili commenti anche in ottica futura e sfidiamo chiunque a non avallare tale nostro auspicio. Contrariamente sarebbe un paradosso.
Oltre a queste inconsuete positive notizie è anche corretto riportare quello che non va. Continua, infatti, a essere elevato il divario sociale tra i cosiddetti gruppi di famiglie distinte per livelli di spesa (sono previste cinque classi). Infatti, si apprende come «poiché i Beni energetici hanno un’incidenza relativamente maggiore sulle spese delle famiglie meno abbienti, l’impatto sul tasso di inflazione dell’evoluzione dei loro prezzi risulta più marcato per il primo quinto di famiglie». Complessivamente, però, il ridimensionamento dell’inflazione è innegabilmente netto (nonostante il persistere del divario) e «per le famiglie del primo quinto, l’inflazione passa da +18,4% del quarto trimestre 2022 a +12,5% del primo trimestre 2023, mentre per quelle del quinto gruppo, scende da +9,9% dell’ultimo trimestre dell’anno precedente a +8,2% del primo trimestre del 2023. Pertanto, il differenziale inflazionistico tra la prima e la quinta classe, si riduce, fino a quasi dimezzarsi, portandosi a poco più di quattro punti percentuali».
Altro elemento degno di nota e, purtroppo, decisamente trascurato dalla cronaca, è quello appartenente al più concreto e tangibile conto economico dei moltissimi risparmiatori ovvero: il parametro utilizzato in sede di calcolo dell’indicizzazione all’inflazione prevista dagli strumenti finanziari obbligazionari emessi dallo Stato italiano. Nel comunicato si legge: «L’indice nazionale dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati (FOI), al netto dei tabacchi, registra una diminuzione dello 0,4% su base mensile e un aumento del 7,4% su base annua».
Anche per quest’ultimo valore si tratta di una variazione percentuale negativa raramente riscontrabile nella recente serie storica degli ultimi due anni: due soli segni meno (-0,1% e -0,2%) nel 2021 e uno (-0,2%) lo scorso aprile. Concretamente si tratta di una riduzione che implica un impatto diretto sui prossimi calcoli delle cedole corrisposte agli investitori e, pertanto, un calo di questo indice equivale a una perdita in conto capitale per la quota di interessi.
Non vorremmo apparire troppo emotivi o eccessivamente entusiasti, ma, sulla base di questa importante rilevazione di Istat, salvo inaspettate dinamiche di brevissimo termine, il sentiment che si può percepire è ampiamente orientato alla positività. Una positività che, per una volta, dopo molto tempo, poteva essere riportata all’intero Paese e ai suoi più diretti interessati: tutti gli italiani. E il loro portafoglio.
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