Nella giornata di mercoledì 28 giugno 2023 è stato diffuso il dato del Pil del 1° trimestre per gli Usa avendosi un valore del 2% superiore alle aspettative; per tale motivo c’è stata una certa euforia nei mercati, trattenuta però dalle dichiarazioni sia del Presidente della Fed che di quello della Bce che entro la fine del 2023 è pressoché certa un’ulteriore stretta dei tassi di interesse modulata su due interventi quasi sicuri.



Il dato appena illustrato, è stato corretto col deflatore del Pil (l’indice statistico di Paasche), avendosi così un Pil a prezzi costanti rispetto all’anno di riferimento iniziale (in questo caso il 2022); anche se il tasso inflattivo non è del tutto coincidente con il deflattore del Pil, le differenze non inficiano l’approccio operativo e pratico; comunque, le letture di aprile e maggio davano un risultato dell’1,3% di incremento, cosicché tale dato definitivo del 1° trimestre in terza lettura sembra che abbia risentito dei dati consuntivati delle importazioni che sono risultate più basse; possibili spiegazioni sono che per il petrolio era stato usato un prezzo standard all’importazione che poi si è rilevato a consuntivo più basso, oppure rescissione di commesse importanti che erano state date per liquidate, ecc.



In poche parole i dati reali dell’economia Usa ci parlano di una crescita economica debole che è poco influenzata da un mercato del lavoro robusto (cioè elevate domande e offerte anche come valori differenziali tra mese e mese); un primo aspetto è cercare di comprendere perché un mercato tonico del lavoro traini poco l’economia.

La spiegazione più importante sta nella qualità dei posti di lavoro creati, in quanto essendo della durata di poche settimane nella maggior parte dei casi e strutturandosi sul settore dei servizi, in particolare turismo, attività alla persona, ecc., risentono nelle loro paghe dell’incremento dei prezzi e per tale motivo danno una forte crescita nominale al Pil e debole sul versante reale; ben diverso è il discorso se l’incremento di posti lavoro avvenisse nei settori agricoli e manifatturiero pesante e nell’industria estrattiva, in quanto gli incrementi di prezzo per i settori a monte del processo industriale, oltre a essere sempre più contenuti rispetto agli incrementi finali al consumo, hanno poi come altro aspetto importante è che un incremento di posti di lavoro nei settori agricoli e primario, per sua natura è di più lunga durata e soprattutto incide sugli investimenti che sono quelli che poi realmente amplificano nel medio periodo la crescita reale del reddito della nazione.



Insomma, la Fed sa che è nel pieno di una girandola inflazionistica che per ora è tornata indietro dai suoi acuti solamente perché di fatto il prezzo del petrolio in dollari è rientrato sotto quota 80 in maniera costante da qualche mese, ma che ancora, tuttavia, resta molto alto rispetto ad anni come il 2015 o il 2016, quando era prezzato mediamente intorno ai 50 dollari al barile Wti; in aggiunta, va ricordato che le oscillazioni di prezzo del petrolio sono del tutto esogene a qualsiasi intervento della Fed e non sono nemmeno nel controllo della Casa Bianca, se non per azioni di annunzio e superficiali.

Come tutti ora sanno, e come già accennato in interventi precedenti, le dinamiche del prezzo del petrolio si inseriscono in un complesso, vasto e disordinato dell’attuale scacchiere geostrategico mondiale.

Quindi, in sostanza, si può affermare che negli Usa siamo di fronte a una crescita inflazionistica e a una debole ripresa reale, avendosi i tassi di interesse reali negativi oppure pari allo zero; si pensi, ad esempio, al Treasury a 10 anni con un rendimento netto del 3,8% (a meno di tasse da scontare) e l’ultimo dato mensile dell’inflazione pari al 4%.

Queste sottolineature poi servono a chiarire ancora una volta di più la confusione che molti fanno tra la crescita iperbolica del bilancio della Fed tramite emissione di base monetaria e l’attuale inflazione; giova ancora ricordare che la base monetaria della Fed emessa in eccesso dalle crisi del 2007/2008 è di fatto tesaurizzata dentro i bilanci degli intermediari finanziari che al 90% la usano per tenere alti i valori di Wall Street ed evitare così un tracollo del mercato azionario; infatti, a contrariis, se tutta questa base monetaria uscisse dalle quotazioni di Wall Street e inonderebbe l’economia allora sì che si avrebbe il Dow Jones sotto i pericolosi 20.000 punti e fino a minimi terrificanti di 15.000 punti; allora sì che si avrebbe un’inflazione da domanda che porterebbe la stessa sicuramente tra il 10% e il 15%.

Infatti, tante confusioni nascono dal fatto che molti che pure vogliono analizzare i fenomeni confondono lo strumento di misurazione (la moneta) con l’oggetto, e cioè l’inflazione; in esempi precedenti ho già descritto che il rapporto tra moneta e inflazione è come quello tra termometro e febbre, dato che nei fatti noi confondiamo la misurazione del termometro interamente col fenomeno febbre; invece, l’inflazione dalla più moderna teoria macroeconomica viene analizzata come sensibile variazione generalizzata in un orizzonte di breve e medio periodo dei prezzi relativi di tutti i beni e i servizi, avendosi così alla fine che il fenomeno inflattivo è una contesa tra i diversi percettori di reddito che tentano di modificare a loro favore la quota della loro ricchezza sul reddito prodotto e distribuito dalla nazione; è solamente nel lungo periodo quando tutte le cause e gli effetti delle variazioni incrociate dei prezzi relativi ha termine che il dato inflattivo torna a essere solamente un dato numerario e quindi monetario che dà una fotografia diversa della nuova realtà creatasi; questo in teoria, mentre nella pratica, a basse inflazioni – come quelle che abbiamo vissuto dagli anni 2000 in avanti – si ha una compresenza di variazioni di prezzi relativi, però poco diffuse o detto meglio concentrate in pochi settori, e variazioni monetarie che la fanno la gran lunga da padroni dando l’illusione di modificazioni solo numerarie.

Ma anche a livello di dati macro si ha che per gli Usa per il 2022 a fronte di un Pil di circa 23.500 miliardi di dollari si aveva una base monetaria di circa 9.000 miliardi con tassi di interesse medi del 3%, e quindi con una velocità della circolazione della moneta (nell’aggregato M2 ma anche M3) abbattutasi a un intorno di 2,5; cosa vuol dire tutto ciò? Vuol dire che la moneta non circola, si ferma, si tesaurizza, non entra nell’economia reale e quindi non crea inflazione; tutte cose queste accadute per gli Stati Uniti d’America in questi anni.

Se poi a questo quadro aggiungiamo che la dimensione informatica e telematica dell’attuale società è oramai robusta, diffusa e sempre più innovativa, abbiamo avuto e abbiamo l’implementazione di economie gamma da dimensioni che abbattono a livelli sconosciuti solo a 20 anni fa, il costo medio produttivo di lungo periodo per ogni bene e servizio; ma secondo molti, com’è possibile aver avuto in questi anni tariffe aree ridicole per viaggiare il mondo? Non è dovuto tutto al costo ordinario del petrolio pre-2019, ma anche all’abbattimento che l’uso diffuso, pervasivo, innovativo dell’informatica ha avuto su tutti i costi.

Noi oggi abbiamo che l’unica vera chance e risorsa anti-inflattiva è la ricerca e l’innovazione tecnologica, mentre al contrario come fenomeni negativi abbiamo carestie, guerre, migrazioni problemi demografici, non abbondanza di risorse fisiche o meglio detto una loro non inesauribilità, sebbene le stesse siano immense.

Quindi,l’inflazione è al momento un problema severo che è reso tale dal fatto che le sue variabili causative sono al momento esogene sia al Governo degli Usa che a quello dell’Ue e dei relativi Paesi componenti; che poi qualcosa di poco ordinario si muove per il mondo, basti ricordare lo stupefacente dato attuale dell’Argentina con inflazione annua al 110%, dove a questi valori infatti la moneta tende a diventare inutile e si deve ricorrere sempre più al baratto.

Quest’inciso poi serve a ricordare a molti pseudo-esperti che la moneta non è l’inflazione e che anzi nei casi di funzionamento ordinario e anche abbastanza surriscaldato dell’economia, la sua stessa presenza serve a calmeriare l’inflazione; ma si può riflettere sui costi e sulle modificazioni spaventosamente negative a cui va incontro un cittadino normale quando deve ricorrere al baratto e non alla moneta per la presenza di una iper-inflazione?

Un ultimo strumento, ma non ultimo come importanza anzi tutto il contrario, che combatterebbe in maniera severa ed efficace l’inflazione è l’azzeramento per prima cosa dei disavanzi pubblici statunitense e dell’Ue e poi in sequenza un effettivo abbattimento assoluto dei debiti pubblici. La problematica degli interventi da ultimo evidenziati sono però i pericoli di forti crisi sociali e tumulti di ordine pubblico.

giovanniricci669@gmail.com

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