Quando il grande cancello affacciato sulla strada si apre, già al primo sguardo si intuisce con chiarezza che non c’è umanità, per quanto piegata, violentata e disgregata, che non possa essere ricostruita, “ingaggiata”, rimessa in moto. I muri sono lindi, i viali ben curati. Tutto è in ordine, o meglio, tutto viene tenuto in ordine anche, se non soprattutto, grazie alla responsabilità, all’iniziativa e all’impegno degli “ospiti”. Chi sono? Persone portatrici di un disturbo mentale grave, a cui un’esperienza in atto di carità e professionalità ha permesso di vivere “un’ulteriore chance” di riscatto in diverse modalità a cui in questi giorni si aggiunge la possibilità di residenzialità autonoma e assistita.



Siamo a Vedano al Lambro, nel cuore della Brianza, a una manciata di chilometri da Monza e dal suo bellissimo Parco. Qui, nella Casa San Paolo, la Fondazione As.Fra. (Assistenza Fraterna Onlus) ha appena inaugurato 5 nuovi appartamenti che si aggiungono ai due preesistenti. Altri 3 sono stati aperti a Concorezzo per pazienti Hiv con la cooperativa Esserci, 4 a Seveso con la Fondazione Maddalena Grassi, un altro a Vigevano (centro psichiatrico con comunità per malati disabili gravi), ulteriori 3 sono in fase di allestimento a Milano. In totale: 18 tra monolocali e bilocali per 25 posti in tutto.



“Non abbiamo creato 18 isole in cui sistemare 25 persone con gravi problemi di disabilità psichica o legati alla malattia cronica – ci tiene subito a precisare Alessandro Pirola, presidente di As.Fra. e direttore della Fondazione Maddalena Grassi -. Questi sono luoghi di sostegno a una relazione di cura, dentro la quale c’è anche tutta la consistenza di un io che ha bisogno anche di momenti di silenzio e di ordine. Le unità abitative sono integrate in luoghi, ancorché con ingressi autonomi e vita separata, in cui vi sono forme di presa in carico, di condivisione, di relazione”. In una parola, cohousing.



Che roba è, viene da chiedersi, il cohousing? Pirola fuga ogni dubbio: “Il cohousing, che pure non ha una sua configurazione giuridica codificata e normata, risponde a un criterio con cui sono nate la gran parte delle forme di cura: professionisti, familiari o gente appassionata che di fronte a un bisogno si inventano la risposta più efficace e meno onerosa. Questo è il motore di quel dinamismo umano che ha inventato luoghi di cura da sempre, luoghi che ovviamente si sono modificati a seconda del modificarsi delle patologie, della comparsa di nuove problematiche, della disponibilità di nuove tecniche e di una farmacopea molto più articolata, che permette di gestire una malattia che se proprio non guarisce diventa una malattia con cui convivere a lungo. Il cohousing nasce da questo”.

A Casa San Paolo, come negli altri appartamenti, gli ospiti in gran parte partecipano alle attività quotidiane, che possono essere individuali o di gruppo, guidate da educatori e maestri d’arte. Si possono svolgere lavori manuali o di giardinaggio, ma ci si può dedicare anche a elaborazioni culturali, secondo un’offerta molto variegata. Soprattutto con la possibilità per gli ospiti di individuare e pattuire un percorso che risponda a una messa in moto, a un “ingaggio”.

“Il primo stimolo a pensare risposte di questo tipo – ricorda Pietro Cavalleri, psichiatra e direttore clinico – è arrivato dalla necessità e dal desiderio di dimettere delle persone dalle strutture residenziali in cui erano ospiti, dimissioni però alle volte impossibili per mancanza di una rete famigliare adeguata. Spesso si tratta di persone che hanno avuto uno sviluppo di vita in qualche modo abortito, perché la malattia mentale, portatrice di particolari problematiche e conflittualità, è una malattia giovanile, che quindi taglia la possibilità di sviluppare un progetto di vita personale. Sono persone che dal punto di vista cognitivo ritengono di avere delle competenze, anche se il modo in cui loro si vedono e vedono la realtà non è il modo con cui noi condividiamo la nostra esperienza della realtà. È sempre un modo che entra in rotta di collisione, creando difficoltà relazionali che ricadono poi sulla vita quotidiana. Ma sono persone che vogliono vivere, solo che hanno interiorizzato ciò che hanno appreso all’interno di una distorsione”.

Nella quasi totalità gli ospiti provengono da esperienze residenziali pregresse, anche lunghe, o da un’esperienza di presa in carico riabilitativa, nel corso della quale hanno manifestato la domanda di poter vivere autonomamente. Quando arrivano alla Casa San Paolo, il più delle volte obbligati (dal giudice, dai fallimenti personali, da una realtà che sentono vessatoria…), viene messa alla prova la consistenza, la tenuta di questa domanda e si costruisce un percorso, codificato all’interno di un vero e proprio contratto, un po’ come si realizza un abito di sartoria: personalizzato, sulla base di ciò che la persona desidera e sulle sue effettive possibilità. “Il nostro lavoro – aggiunge Cavalleri – è arrivare a fare questo contratto terapeutico e a farlo ogni giorno: investire su un bene a cui danno stima e fiducia perché possa svilupparsi e aprirsi a tutta una serie di possibilità compresa questa. E che può sfociare anche in un futuro reinserimento lavorativo”.

Il cohousing è una rete che li aiuta a essere meno fragili. È un rieducare costantemente, anzi, è come uno “svezzamento”. A definirlo così è Elizabet Cendra, direttrice delle tre case alloggio per malati Hiv a Concorezzo e a Seveso. “Arrivano da noi – racconta – che il problema è l’Hiv, però la persona non è l’Hiv, ha anche l’Hiv. Nel percorso viene fuori tutta la vita della persona: frustrazioni, debolezze, anche cose che non avremmo mai potuto immaginare. E la risposta a questo vissuto, quando emerge, di persone maltrattate, sfruttate, violentate, non è immobiliare, cioè non sapendo dove andare li mettiamo negli appartamenti. A volte anche noi sperimentiamo un’incredibile impotenza ed è per questo che le nostre équipe sostengono questo lavoro”.

Alla radice, è un problema di sguardo, di saper guardare l’umano. “L’empatia però non accade, per fortuna, a tutti nello stesso tempo o con le stesse modalità, ognuno incontra a suo modo: portare a galla la propria vita è la cosa più faticosa per i nostri ospiti. E in questo rapporto l’operatore si fa carico di un lavoro importante, perché la prima reazione è dire: lì c’è la porta, avanti il prossimo. Ma mettere fuori qualcuno è l’ultima spiaggia”.

Perché? “Perché lo stupore di uno sguardo di stima è il Dna di queste opere, è l’originalità di questa esperienza. Il nostro lavoro è chiederci ogni volta: abbiamo fatto tutto quello che potevamo fare? E il primo a guadagnarci in un lavoro serio di incontro con l’altro è proprio l’operatore, perché le manovre si possono imparare, la farmacopea si può imparare, ma leggere e abbracciare la vita di un altro è un mettersi in gioco nella libertà. Sempre”.

Cavalleri lo ha imparato nella sua lunga esperienza di cura: “Non bisogna mai confondere quel che accade con un automatismo, le situazioni vanno valutate di volta in volta, entrando dentro tutte le pieghe delle decisioni, dei fatti accaduti, dei meccanismi in atto, delle ritrosie ad aprirsi. Non si può allontanare una persona solo perché è venuto meno a una regola. L’unica regola che vale è scommettere settanta volte sette su una possibilità di ripresa. Ecco perché si continua a investire su queste persone”.

Una scommessa che, in più, regala nuova vita alle stesse strutture di accoglienza e cura. Come racconta Emanuele Flaccadori, direttore amministrativo della Fondazione Maddalena Grassi, da 20 anni in Fondazione e presidente della cooperativa Esserci, titolare della casa di Concorezzo, che ospita due comunità di sieropositivi: “Questa iniziativa è nata nel 2012 quando abbiamo dovuto intervenire perché la casa di accoglienza di Seveso non era più a norma. Il nuovo progetto con gli appartamenti non ci era ben chiaro. Ma fa parte della storia, dell’urgenza e della preoccupazione che la Fondazione Maddalena Grassi ha sempre avuto il cercare di anticipare quello che poteva essere un bisogno”.

Dopo anni di convenzione con l’Ats, ma con i centri diurni poco occupati, anche perché per i pazienti e le loro famiglie raggiungere Seveso non era agevole, l’intuizione di creare un bilocale e un monolocale si rivela “geniale”. Dopo la riapertura nel 2013, i primi a rispondere sono stati i sindaci, alle prese con casi eclatanti di disagio. Col tempo la vita della casa è addirittura rifiorita, “ci ha dato la possibilità di utilizzare pienamente il centro diurno, cosa mai accaduta prima se non per episodi sporadici. È stata un’opportunità unica per i ragazzi, perché la libertà, l’acquisizione di una maggiore autonomia, che all’inizio viene vissuta come una grande difficoltà, visto che aumenta il rischio di ricadere nelle vecchie abitudini, li rende più responsabili. E può diventarlo anche per pazienti con patologie diverse dall’Hiv. Basti dire che non abbiamo mai riscontrato problemi con le persone che convivevano con noi nella struttura”.

Desiderio, libertà, responsabilità, amore per sé e per le cose, dentro un rapporto e un’esperienza che non dà nulla per scontato. Il cohousing, a differenza dei diamanti, non è per sempre, non c’è un diritto a restarci a vita: “L’obiettivo – incalza Cendra – è rendere gli ospiti autonomi e responsabili, tanto che il passaggio successivo potrebbe essere: ok, tra un po’ potrai abitare fuori e darai la possibilità a un altro di fare questo percorso. I nostri progetti tendenzialmente hanno un termine, si firma un contratto e si contribuisce economicamente, proprio per dare dignità, per far capire che nulla è scontato”.

La sfida del patto terapeutico è tutta qui: ci si coinvolge e si condivide, senza finzioni e senza mai sostituirsi alle scelte sbagliate, imponendone altre. Questa ripresa di un desiderio di bene per sé è, in chiave terapeutica, il motore dell’efficacia, perché possa incrementarsi una libertà di scelta e un compimento di educazione. Un mix che sviluppa professionalità, genera opere, ristruttura luoghi, reperisce risorse (che portano grandi risparmi alla collettività), muove libertà.

Ma per mettere in piedi queste iniziative non bisogna saper correre dei rischi? “Oggi – conferma Pirola – queste nuove forme di cura sperimentano incertezza fiscale e giuridica. Occorre una libertà che si implichi anche da parte dei poteri dello Stato, dalla magistratura alla politica, cosicché concorrano a creare le condizioni perché esperienze come questa siano sempre più efficaci e diffuse. La prima questione, perciò, è che guardino con simpatia il tentativo, perché solo così se ne scorge l’utilità e se ne correggono le eventuali sbavature. È la speranza di chi ha un familiare in queste condizioni e non sa più dove sbatter la testa, di chi ha un vicino di casa in condizioni del genere non ospitato e curato, di molti sindaci alle prese con situazioni di gravissimo disagio”.

E allora, come augurio di buon anno, si aprano altri grandi cancelli come quello che spalanca sulla bellezza e sulla letizia che si respirano tra gli appartamenti e i viali di Vedano al Lambro.