Come c’entrano letizia e bellezza là dove si affrontano sofferenza e gravità delle patologie trattate, spesso ad alta necessità e intensità assistenziale, come malati oncologici o pazienti affetti da Hiv o neurologie degenerative? Per capirlo bisogna incrociare l’esperienza trentennale della Fondazione Maddalena Grassi. “Professionalità, adeguatezza di cure che incidono visibilmente sul grado di soddisfazione del paziente e del contesto familiare in cui vive, capacità di orientare il sistema e il quadro normativo, proficua integrazione tra assistenza domiciliare e degenza, attenzione a piegare l’offerta di cura alla condizione del paziente, coraggio di gettare economicamente il cuore oltre l’ostacolo, volontà di intrecciare rapporti con i maggiori centri d’eccellenza del Milanese”. Sono queste le coordinate con cui Alessandro Pirola, direttore generale della Fondazione Maddalena Grassi, tratteggia l’esperienza e l’originalità di questa opera, pensata e cresciuta nel tempo dedicandosi all’assistenza domiciliare, il cui motto è: casa e cura.



Quando nasce questa esperienza di casa e di cura?

La Fondazione Maddalena Grassi nasce una trentina di anni fa dalla passione di alcuni operatori del mondo della sanità – infermieri, medici, fisioterapisti, gestori, amministratori – che colpiti da un certo modo di vivere la professione, la sanità, la cura e dal vero bisogno che avevano i pazienti, pur soddisfatti per le prestazioni professionali ricevute, decidono di mettere in piedi un soggetto giuridico che veicoli più efficacemente questa esperienza di bellezza, di bene, di esaltazione della professionalità, già vissuta peraltro in prestigiosi ospedali storici del Milanese.



Perché avete iniziato con l’assistenza domiciliare?

Perché era, e in gran parte ancora oggi è, la grande assente, specie in un passaggio storico del Servizio sanitario nazionale come la remunerazione per attività di cura (Drg). La lunghezza delle giornate di degenza, che fino a quel momento era fonte certa di incasso, era diventata fonte di costo, per cui bisognava fare degenze le più brevi possibile. Morale? Pazienti con i punti sulla ferita, mandati a casa. Inoltre, si presentavano le prime forme patologiche croniche severe, in particolare con i malati di Aids, che vissuta la fase delle allora possibili cure non avevano più bisogno di ricoveri in reparti allora concepiti come molto vicini alla terapia intensiva. Così noi cominciamo a mettere in piedi un’esperienza per accompagnare i malati.



Un’intuizione vissuta e cresciuta in questi 30 anni. Che frutti ha generato?

Oggi siamo i più grandi erogatori di assistenza domiciliare della Ats di Milano. Siamo accreditati sia per l’erogazione dell’assistenza domiciliare sia per l’erogazione domiciliare delle cure palliative. Curiamo 2.500 pazienti l’anno, ne abbiamo in carico costantemente più di 800, entriamo tutti i giorni in 500 famiglie. I pazienti che abbiamo in carico sono pazienti che hanno in parte delle patologie post-acute di bassa intensità assistenziale, ma in buona parte ci prendiamo cura anche di soggetti con necessità di alta intensità assistenziale. Abbiamo un 30% di pazienti affetti da più patologie, che richiedono contemporaneamente la cura di diverse professionalità e che molto spesso hanno patologie croniche un tempo inimmaginabili da gestire a domicilio. E un tempo inimmaginabili come qualità e durata di sopravvivenza.

Per esempio?

Centocinquanta, sui circa 200 presenti in tutta l’Ats di Milano, sono minori gravi e gravissimi, alcuni dei quali con bisogno di alimentazione parenterale e ventilazione assistita, affetti da malattie neurologiche, crisi neurologiche post partum, malattie infettive cerebrali, crisi post-anossiche intra-parto o per eventi successivi, post traumi. Sono minori che fino a vent’anni fa non avevano una lunga attesa di vita, oggi invece sì e la cui qualità di vita è direttamente proporzionale al contesto in cui vivono e alle cure che gli si possono erogare. Abbiamo cominciato in maniera molto empirica: a uno dei nostri fondatori era nato un nipotino con paralisi cerebrale grave e ci siamo presi cura di lui, mentre allora il sistema non aveva mai immaginato di curare queste forme e queste età. Così è nato un dialogo e un rapporto anche con le istituzioni – e questa è un’altra caratteristica dell’originalità della Fondazione Maddalena Grassi – capace di orientare l’istituzione, cioè di far generare disposizioni, prassi, protocolli, addirittura norme, che registrassero le nuove forme di cura e ne prendessero atto.

Addirittura con il vostro esempio siete riusciti a indirizzare dal basso l’intervento normativo?

Sì, abbiamo concorso, è non è l’unico esempio. Il più grande dei problemi che avevamo prendendo in cura i pazienti in domicilio consisteva nel fatto che, una volta dimessi, andavano a casa, poi dovevano passare dal medico di base che gli prescriveva l’assistenza domiciliare, quando il medico sapeva cos’era. A quel punto il malato doveva recarsi all’Ats per farsi autorizzare l’assistenza domiciliare, aspettare che uscisse il medico per verificare di quale cura avesse bisogno e infine scegliere tra i soggetti accreditati da quale erogatore farsi curare. In tutto, una trafila di almeno 5-6 giorni di tempo, cioè il periodo in cui uno ha la massima necessità di assistenza a domicilio, ammesso che sia stato oltre tutto nelle condizioni di poter seguire tutti questi passaggi, visto che ormai il 50% di chi abita a Milano vive ormai da solo.

Quindi?

Abbiamo lanciato una campagna di sensibilizzazione e siamo riusciti a convincere la Regione Lombardia a permettere al medico ospedaliero di disporre il primo mese di assistenza domiciliare successivo al ricovero. Contemporaneamente abbiamo preso contatti con i più grandi reparti di acuzia degli ospedali milanesi per immaginare la prima visita al letto del paziente in dimissione da parte dei nostri operatori o addirittura abbiamo stretto rapporti tali con i medici ospedalieri per cui sono in grado di darci una serie di elementi per attivare dal momento della dimissione un’assistenza domiciliare. Capita così che il paziente che viene mandato a casa trova già il nostro infermiere.

Perché è così importante, al di là del fatto che i pazienti dimessi risparmiano tempo e fatica?

Si dà un senso reale e concreto di presa in carico, un senso di certezza e di affidamento, un accompagnamento che è gran parte del contenuto della terapia, senza nulla togliere all’efficacia farmacologica e terapeutica. È un sollievo che ha un notevole effetto anche dal punto di vista del carico economico della sua cura, perché il malato si reca molto meno al pronto soccorso, interpella molto meno visite specialistiche fuori posto, accede meno frequentemente a percorsi diagnostici già espletati o non necessari per placare la sua ansia. Questo è un altro esempio di successo in cui l’istituzione ha recepito una buona prassi anche dalla nostra esperienza e l’ha normata.

La Fondazione Maddalena Grassi cura anche pazienti con malattie neurologiche degenerative, vero?

Abbiamo in carico in capo a un anno una cinquantina di pazienti tra Sla, affetti Corea di Huntington e Sma, un centinaio di malati Hiv positivi che possono ancora reggere al proprio domicilio e un centinaio di malati oncologici in fase avanzata. Tutti gestiti dal settore delle cure palliative.

Quello delle cure palliative è un concetto che si va sempre più sviluppando?

La cura palliativa viene intesa come gestione del sintomo del malato su cui un’attività terapeutica attiva non è più efficace. Ecco perché cominciamo ad avere in carico anche soggetti terminali non oncologici, verso i quali però si utilizzano le cure palliative quando c’è l’effettiva e unica necessità di gestire il sintomo, ma cercando di tenerli nel circuito delle cure ordinarie per tutto il resto delle loro patologie.

Il vostro motto è: di casa e di cura. Che cosa significa?

Nel tempo ci siamo accorti che molti dei pazienti che curavamo a domicilio non erano più in grado di stare al domicilio, ma non avevano necessariamente bisogno di un ricovero ospedaliero, bensì di un altro tipo di ricovero. Per cui oggi abbiamo aperto tre case per malati di Hiv, ciascuna con 10 posti letto e con 2 posti letto di attività diurna. Abbiamo aperto una comunità protetta da 20 posti letto per malati psichiatrici di media intensità, affiancata da un centro diurno per la stessa tipologia di malati a cui non necessitano attività di degenza. Abbiamo aperto una residenza sanitaria per disabili, in cui ospitiamo 18 pazienti, 4 in nucleo di stato vegetativo e gli altri 14 di fatto in stato di minima coscienza, attratti proprio da questa nostra capacità e originalità.

Grande attenzione, dunque, al paziente?

Uno dei nostri elementi di maggiore originalità è proprio il fatto che pieghiamo l’offerta di cura alla condizione del paziente, offrendo per ciascuna filiera trattata – Hiv positivi, oncologici, psichiatrici, neurologici … – dall’assistenza domiciliare al day hospital, dal ricovero alla residenzialità assistita. Facendo anche percorsi inversi.

In che senso?

Quando un malato migliora un po’, lo portiamo all’attività meno intensa, che è una prassi, per chi opera a soli fini di lucro, insolita.

E per voi?

Ci vuole un’originalità, tipica dell’ente che abbiamo per le mani, per sostenere e vivere una scelta del genere e promuoverla come elemento di pregio. Guai se tenessi un paziente ad alta intensità per la retta che mi genera. Sembra ovvio, ma oggi la cosiddetta attesa di appropriatezza di cure ha a che fare con questo problema. Questa caratteristica è interessante, perché noi oggi vediamo soggetti in casi di Hiv ad alta intensità che tornano al domicilio, quando l’hanno conservato. Professionalità e adeguatezza di cure hanno un risvolto economico e incidono contemporaneamente sul grado di soddisfazione del paziente e del contesto familiare in cui vive.

La Fondazione Maddalena Grassi genera offerte di cura non previste dal sistema. Perché?

Questa prassi, che sembra una novità assoluta, è invece la tradizione di duemila anni di storia di cura: nasce prima la forma di cura e poi la norma che la regola. E molto spesso si arriva a tenere sotto traccia una nuova forma di cura proprio perché non piova dal cielo una fila di norme che più che agevolarla la ostacolino.

E cosa accade?

Accade che tu vedi un paziente che non avrebbe bisogno di un ricovero, ma non è più in grado di stare nel suo domicilio. E un’attività di day hospital non è possibile per mille ragioni. Allora abbiamo messo in piedi un progetto di co-housing. Abbiamo già in funzione 5 appartamenti, in cui ospitiamo pazienti con le patologie che trattiamo che possono vivere in un domicilio con alcune caratteristiche strutturali, architettoniche e di supporto alla vita ordinaria.

In concreto?

Due appartamenti sono presso una casa di accoglienza Hiv, con ingresso autonomo, separato, videocitofono e ascensore. È evidente che i malati, vivendo lì, il giorno in cui non stanno tanto bene, possono andare giù a mangiare o se si svegliano con il febbrone c‘è un’infermiera che può salire a provargli la temperatura e a vedere se ha le sue medicine. Ma siccome è gente il cui contesto familiare è devastato, bisogna creare un contesto di casa. Perché il primo posto in cui uno vuole stare o vuole tornare quando non sta bene è a casa sua. Se ce l’ha, va preservata come la più preziosa delle risorse; se non ce l’ha, va ricostruita o almeno va ricostruito un contesto che ne sia quanto più possibile specchio e segno. Ecco perché abbiamo lanciato la costruzione di altre 10 unità, 7 delle quali in via di ultimazione. Non abbiamo ancora finito di costruirli e abbiamo già la lista di attesa. Paradossalmente c’è un’attesa di frequentarli da parte di chi è ricoverato e li vede costruire.

Perché ambisce a tornare lì?

Questo atteggiamento, specie nel campo psichiatrico, è molto stimolante. Non c’è risorsa più efficace e più grande di uno che rimette in moto se stesso. E non c’è risvolto economico più significativo e più lenitivo di un disavanzo di bilancio – e mi riferisco alla sanità italiana in generale – che rimettere in moto o preservare chi è in moto rispetto a una cura di sé. Questa è un’altra delle caratteristiche fondamentali della Fondazione.

Come tutto ciò è reso possibile dal punto di vista economico?

Merito, diciamo così, della congiuntura astrale di due elementi, dove l’uno tira l’altro: la carità della gente e la buona gestione. Noi gestiamo queste opere come vanno gestite le opere, puntando alla produzione di un valore aggiunto e immaginando già in sede di bilancio preventivo l’impiego di questo valore aggiunto atteso in ulteriori servizi o in servizi erogati a chi non ha i mezzi per potersi pagare questi servizi. Tutto quello che è stato generato, in buona parte, è generato perché chiudiamo i bilanci in pareggio, mettendo tra i costi gli ammortamenti. È la grande differenza di un’opera che vuole attraversare il tempo rispetto a un’opera che il tempo è destinata a non attraversarlo, tant’è vero che oggi assistiamo alla crisi di tanti enti filantropici, caritativi, anche di estrazione fortemente motivazionale, religiosa o laica che sia, perché sono sempre stati gonfiati i costi in sede di gestione ordinaria e mai in sede di gestione strategica. Una carità che rischia di essere pauperistica. Mettendo gli ammortamenti a costo, da un lato, noi troviamo la possibilità di fare manutenzioni straordinarie al momento del bisogno e di mantenere le attrezzature per acuti in funzione; dall’altro, riusciamo a liberare risorse finanziarie per cominciare a buttare il cuore oltre l’ostacolo, tanto da partire con un progetto per 10 appartamenti quando si hanno in tasca i soldi per due.

Non è un azzardo?

No. Quando parti così, ti accorgi e stimoli un interesse nel cuore della gente per cui c’è un’implicazione di altre risorse, che vengono a liberarsi. Tanto che non so tra donazioni e buona gestione quale sia l’elemento trainante, ma so di certo che un buon imprenditore i soldi non li mette dove vengono buttati via, visto che conosce bene la fatica che si fa a guadagnarli. Il problema del pauperismo ce l’hanno quelli che i soldi non li hanno mai prodotti. Così gran parte delle nostre opere sono in edifici donati, ristrutturati agli scopi che ho descritto e poi ampliati, assistendo di volta in volta ad autentici miracoli. Da 30 anni assistiamo a una serie di solidarietà di popolo straordinaria che ci stupisce.

Molte strutture assistenziali e di cura, però, si trovano a dover fare i conti on sempre più penalizzanti ristrettezze economiche…

In sanità si cura a risorse finite, limitate. È così fin dal sorgere delle prime forme di assistenza e di cura, perché se per curare i fondatori degli ospedali, gli ordini religiosi o le più grandi strutture per acuti avessero dovuto pensare ad avere tutte le risorse necessarie – economiche, professionali, ambientali, legali -, e poi alla fine forse si può partire se c’è un decreto che te lo concede, avremmo ancora i morti sotto i ponti. La finitezza della risorsa è la caratteristica, non è l’obiezione. La lamentela che manca una cosa è l’osservazione che manca una cosa: bisogna immaginare come reperirla o come farne a meno. Questo stimola alla buona gestione amministrativa e all’appropriatezza di cura.

Un’ultima domanda: perché la sussidiarietà è una risorsa?

È un’evidenza documentabile, sperimentabile. Se vissuta in atto, la sussidiarietà non solo produce le stesse prestazioni a minori costi, ma genera nuove prestazioni, inventa prestazioni, concorre a un’adeguatezza di cura, concorre a una pertinenza farmacologica, concorre a una riduzione di sprechi. Cioè co-genera sistema, senza dimenticare la necessità di uno Stato, di una preoccupazione generale matura, anche giuridicamente codificata, che si faccia carico di una risposta al bisogno, segno evidente del livello di una civiltà.

E in Italia sono evidenti esperienze e riscontri di questa civilissima preoccupazione?

Certo, basta pensare alla forma universale della cura sanitaria, all’appropriatezza delle cure, al diritto alle cure e non alla guarigione. Tutto ciò nella capacità del popolo, nella capacità dell’ingegno e del cuore umano di articolarsi trova il più grande motore, rispetto al quale vale la pena muoversi solo in seconda battuta, per una constatazione a valle: 40 anni di 833, di riforma del Ssn, a cui dobbiamo essere grati perché pensata da gente che è venuta su in questa cultura come completamento di questa offerta di cura, documenta che là dove l’integrazione è accaduta sono fiorite eccellenze, anche nel pubblico; là dove invece questa integrazione non è accaduta, anzi è stata vissuta come tentativo di esproprio di una capacità presunta esaustiva da parte dello Stato, si sono verificate devastazioni da un punto di vista degli effetti di cura e degli effetti economici, clientelari e di spreco.

(Marco Biscella)