“Stai con me”. Contano e bastano queste tre semplici parole. Contano, quando in famiglia ci si trova a fare i conti con un minore affetto da patologie degenerative gravi o gravissime. Bastano, agli operatori della Fondazione Maddalena Grassi, quando sono chiamati a prendersi in carico l’assistenza domiciliare di questi bambini.



Tutto è iniziato 15 anni fa, da un semplice, quanto drammatico, fatto. Lo racconta Alessandro Pirola, direttore generale della Fondazione: “Abbiamo cominciato a occuparci di minori con gravi patologie e gravi disabilità anche in concomitanza con un evento che ci ha riguardato tutti. Come dico sempre, ‘ci è nato un nipotino’, il nipotino di Maurizio”.



Maurizio Marzegalli è un medico cardiologo, oggi è vicepresidente e Delegato alla cura dei minori presso la Fondazione. “Quando l’Asl ci ha chiesto di seguire bambini sempre più gravi – ricorda -, in quello stesso periodo è nato il mio nipotino. A una richiesta da parte delle istituzioni si è subito affiancata la verifica personale della drammaticità di queste situazioni”.

Quel fatto oggettivo ha sfidato la Fondazione. “Ci è stata chiesta la passione di un’affettività e di una professionalità congiunte – dice Pirola -, che hanno generato un’offerta di cura che ha preso noi stessi, sia per le dimensioni a cui è arrivata, sia per il grado di professionalità implicato”.



Oggi – coordinati da Catia Tognoni, infermiera, da 25 anni in Fondazione Maddalena Grassi e responsabile ultima dell’Adim (Assistenza domiciliare integrata per i minori) – ogni giorno una sessantina di operatori altamente qualificati si prendono cura, tra Milano e la Brianza, di più di 140 bambini e ragazzi gravi o gravissimi. Per lei, abituata ad andare nelle case a curare i bambini affetti dalle patologie più complesse, è quasi naturale, c’è come un fil rouge: “Io sono arrivata qui nel 1995 e l’assistenza ai bambini è sempre stata scritta nella storia della Fondazione: Maddalena Grassi è una ragazza morta per fibrosi cistica. Ecco perché si è cercato fin dall’inizio di andare al fondo delle richieste di queste famiglie”.

La cura domiciliare di un bambino comporta anche la cura della sua famiglia e curare a 360 gradi è la mission propria della Fondazione, facendo sì che si possano trovare le risposte più adeguate possibili per arrivare a dare una presenza. “Molte di quelle malattie sono incurabili, quindi bisogna trovare il modo di essere una compagnia, una presenza reale, un supporto continuo a queste famiglie”.

Quindici anni di esperienza di cura domiciliare ai minori che cosa hanno lasciato e insegnato? “Le patologie che ci si sono presentate – risponde Tognoni – facevano paura. Ma io personalmente credo di aver acquisito tanto dai genitori: stando ad ascoltare le loro paure e i loro bisogni, cercando insieme di rispondere a domande profondissime e drammatiche, nella stragrande maggioranza dei casi si è scelto di dare una risposta positiva alla vita. E’ facile dire: questo bambino, che aspettativa di vita ha? Nessuna, se guardi solo la patologia. Ma se credi alla vita, dentro un rapporto stretto e leale con la famiglie, trovi la strada, che non diventa accanimento terapeutico. E’ un regalo. Siamo riusciti a farli soffrire meno e a far loro acquisire delle tappe, in alcuni casi fino al loro inserimento a scuola”.

La domanda, a questo punto, viene spontanea: dove sta il confine sottile tra accanimento terapeutico e cura? Che tipo di attenzione e di professionalità bisogna avere? “In una relazione devi starci, devi esserci, devi metterci il cuore – sintetizza Tognoni -, solo così si riesce a comprendere e a non giudicare. E poi sono gli stessi bambini che ti aiutano: devi guardare con gli occhi della realtà”.

Il problema non è tanto tenere in vita a ogni costo qualcuno, è anche capitato di accompagnare una famiglia fin dove il limite non può essere superato. E’ stato lo stesso bambino a farlo capire, “l’importante – osserva Marzegalli – è aver fatto un percorso comune, di confronto. Non è tanto questione che uno a un certo punto dice basta. Lì tutti – infermieri, medici, genitori e noi – ci siamo guardati in faccia e ci siamo resi conto che era questa la verità che ci si imponeva davanti agli occhi. Il tempo è stato speso costruendo un giudizio comune e si è arrivati a questa decisione con drammatica serenità”.

Quello che offre la Fondazione Maddalena Grassi è un lavoro complesso, che richiede un’articolazione di professionalità tra loro integrate. Si può arrivare anche a sette-otto professionalità implicate nella cura dei casi più complessi, professionalità che nella loro esclusività non avrebbero una competenza e una capacità di affronto globale della problematica. Da un punto di vista aziendale, Pirola le descrive come “responsabilità a matrice in atto”, ma il punto vero è che anche l’articolazione aziendale è conseguenza di un approccio: “In un sistema che tende a remunerare la prestazione, per noi descrivere la prestazione di cura a un soggetto in cui a volte sono implicate contemporaneamente più professionalità, diventa difficile, se non riduttivo, se non impossibile. C’è, quindi, una sorta di presa in carico che va condotta, integrando, implicando ed esperendo tutte le risorse disponibili. A volte non ci sono risorse adeguate, come dato di realtà, ma questo non impedisce di fare le cure possibili, non diventa obiezione alla non presa in carico, diventa la condizione entro cui bisogna stare”. Il suo auspicio? Che “il legislatore prenda atto di questo fatto, per cui ridurre alla conta delle giornate o alla conta degli accessi è una strada che non porta da nessuna parte, anche se si comprende che le risorse sono limitate. Non serve l’ennesimo castello legislativo, semmai un atteggiamento semplice: osservare una realtà di questo genere in atto”

La richiesta nasce dall’esperienza sul campo: spiegare a chi deve mettere un timbro sull’autorizzazione delle prestazioni in che cosa consiste una prestazione che non ha mai visto sul territorio è uno spreco di risorse e di energie. “Che si riversino queste energie nei budget di cura – esorta Pirola -, che richiedano dei requisiti a priori con gli accreditamenti e a posteriori con le verifiche dei risultati di legittimità, a cui va pur dato il peso, ma soprattutto con osservazioni di merito”.

Un’originalità e una ricchezza d’esperienza che la Fondazione Maddalena Grassi vuole mettere a disposizione di tutti, tanto che domani ha promosso a Milano il convegno “A casa è meglio per tutti se…”. “Questo convegno è una delle nostre punte di diamante – sottolinea Marzegalli – perché per noi il fare le cose e il mantenerne viva la coscienza, e quindi il raccontarle, è essenziale”.

Ma perché questo titolo? A tirarlo fuori dal cilindro è stato proprio Marzegalli: “In tutta la legislazione e nei comitati scientifici si cita che l’ideale di cura per questi bambini è che siano a casa. Il problema è che dopo non ci sia l’abbandono assistenziale e terapeutico, perché a casa non vuol dire lasciarlo solo ai caregiver, ai genitori, alla famiglia, serve un sostegno adeguato. Questa è la carenza maggiore, tanto che il problema più urgente oggi, anche numericamente parlando, non è l’eutanasia, è l’abbandono. Non si può dire alle famiglie: arrangiatevi, diventerebbe per loro una situazione insostenibile e si negherebbe a questi bambini una possibilità di socializzazione. Il ‘se’ del titolo del convegno vorrebbe essere la richiesta a tutti, partendo dall’esperienza vissuta, per identificare e superare le criticità maggiori che differenziano l’assistenza ai minori da quella degli adulti. Bisogna far sì che queste specificità possano essere colte e permesse dalla normativa”.

“Incasellare i minori nell’Adi adulti non consente cure appropriate – aggiunge Tognoni -. Tante volte si tratta di bambini che vivono in un contesto disagiato. La normativa deve quindi prevedere una presa in carico. E poi mancano alcuni tasselli, che consentano che alcune figure vengano formate per ridurre i costi sanitari della cura di questi bambini e che le famiglie possano contare su qualcuno in grado di sostituirli, dentro il loro contesto di vita, garantendo loro una qualità di vita famigliare”.

Limitatezza delle risorse e specificità molto sofisticata delle prestazioni sono un obiezione. Come non lo possono diventare? E visto che non esiste ancora una normativa specifica sull’Assistenza domiciliare integrata per i minori e per le Cure palliative pediatriche, che cosa servirebbe? In Fondazione Maddalena Grassi hanno le idee molto chiare. Bastano e contano tre richieste.

Prima richiesta: che si faccia una riserva di budget all’interno delle somme previste per l’assistenza domiciliare in genere a favore dell’assistenza domiciliare pediatrica. “Che questo capitolo di budget – spiega Pirola – sia alimentato dalle quote previste per l’assistenza sanitaria ma anche dalle quote previste per l’assistenza sociale. La benedetta integrazione tanto auspicata è uno dei se che sottostanno al titolo del nostro convegno. In nessun altra patologia come in questa è evidente quanto l’integrazione e la coesistenza dei due capitoli in cui sono divise le politiche, gli uffici e i funzionariati siano fuori dal mondo e fonte di dispersione di risorse e di sprechi insopportabili. Un capitolo di spesa alimentato in forma trasparente da queste due forme di assistenza, perché sostenere la famiglia, sostenere la coppia, sostenere l’educazione dei fratelli vuol dire curare i nostri pazienti. Tutelare questo è il più scaltro degli investimenti che può fare uno Stato”.

Seconda richiesta: si verifichino i requisiti degli erogatori, specifici, perché le cure palliative hanno una loro originalità, l’assistenza domiciliare ha una sua caratteristica che varia anche al variare dell’intensità, perché non è uguale curare tutte le patologie, ma curare i minori ha una sua originalità.

Terza richiesta: si vada ad alimentare il fondo di dotazione di queste cure domiciliari nella forma più trasparente possibile, andando a capire anche a posteriori che costo ha un metodo di approccio e che costo ne ha un altro. “In questo senso l’università, la statistica, l’epidemiologia devono fare la loro parte. Quanti sono i minori suddivisi per gravità, per area geografica, per contesto famigliare, per patologia, per efficacia di cura? Andiamo a vedere chi li ha curati meglio. Qualche cosa ci sembra di avere anche da spiegare e da dire, ma prima di tutto noi vogliamo imparare”.

Tutto da imparare, piuttosto, è sicuramente uno slogan che campeggia nella vita della Fondazione Maddalena Grassi: “Abbi un cuore che non si indurisca mai, un carattere che non si stanchi mai e un tocco che non faccia mai male”. Come si fa a restare in una posizione così?

“Se concepisci il rapporto di cura come un atto di generosità – spiega Tognoni -, resisti poco, poi cominci a recriminare contro tutto e tutti. Se invece realisticamente ti capita di incrociare lo sguardo di questi bimbi, come degli altri pazienti, malati psichiatrici gravi o malati terminali, con cui hai a che fare e osservi che il loro desiderio e la loro letizia è data sì dal sostegno che tu gli dai, ma che hanno la stessa natura del tuo desiderio, a quel punto vedi la natura del tuo desiderio sfidata e desiderosa di essere compiuta come lo desideri tu per te. Allora al mattino questo sguardo lo cerchi. Devi starci in un contatto reale, devi guardare le persone, percepirle, toccarle, ascoltarle. Concretamente, non dietro a un telefono. E’ star lì nel loro contesto che acquisisci la forza e il valore aggiunto per te”.

“E’ una tensione di tutti i giorni, una sfida, una sintonia di sguardi, un impeto di umanità” interviene Marzegalli, che ricorda un altro slogan decisivo: “Tu sei un bene per me. Quanto è vera questa affermazione! Perché, pur nella drammaticità, i bambini e le famiglie ci donano tantissimo. Ho lavorato 40 anni in ospedale, ma il bisogno che esprimono i malati in ospedale è totalmente diverso da quello che incontri nello stesso malato a casa. E’ il di più che emerge nella cura domiciliare. In ospedale è la malattia; a casa è lui, la persona”.

C’è un’ultima, e ultimativa, domanda che il mondo di oggi, dominato dalla cultura dello scarto, come denuncia Papa Francesco, fatica a porsi e alla quale non sa rispondere se non imboccando delle scorciatoie: come si può stare davanti a un dolore innocente così grave e drammatico? Che cosa vuol dire curare e accompagnare?

“Uno, il dolore, non lo sceglie a priori – ribatte subito Marzegalli -. E’ la realtà che ti si impone: il dolore te lo trovi davanti come parte della tua vocazione, della tua storia. Puoi girarti dall’altra parte oppure abbracciarlo, accompagnarlo in modo serio e attento”.

E Pirola conclude così: “Il confine non è tra accanimento terapeutico ed eutanasia, perché accanimento terapeutico ed eutanasia sono due facce della stessa medaglia. Nella realtà c’è un dato di fatto: la sofferenza e il dolore sono insopportabili, nessuno è fatto per la sofferenza e il dolore, siamo fisicamente e ontologicamente fatti per un’altra cosa. La domanda più diffusa è: non voglio essere malato, non voglio morire. E anche quando uno decide così è perché non sopporta più il dolore di quelli che ha intorno, non il proprio. Potessi, farei tutti sani e tutti eterni. Non posso, non è dato all’umano fare questo. E’ una domanda così radicata che probabilmente deve essere scritta da Chi aveva la risposta, perché uno non può scimmiottare neanche artisticamente un bel paesaggio se non l’ha visto. Noi vogliamo accompagnare tutti in quel bel paesaggio, a partire da me: io voglio andare in quel bel paesaggio. Si parte da una selva oscura, che è un dato di realtà umano, ma la selva oscura non nega il bel paesaggio. La questione è: siamo più attaccati al bel paesaggio o siamo più affranti dalla selva oscura? Facciamoci coraggio, senza scorciatoie o lungaggini, e facciamoci compagnia. Una grande, professionale ed economica compagnia”.