Costi energetici alle stelle, materiali di confezionamento introvabili e carissimi, incertezza generalizzata. È un quadro a tinte fosche quello descritto dai 150 operatori del food and beverage che hanno risposto all’indagine di Alimentando.info, svolta tra il 28 febbraio e il 9 marzo. Uno scenario reso ancor più problematico dai rapporti tesi con la distribuzione, che il più delle volte fa orecchie da mercante. E di ritoccare i listini proprio non ne vuole sapere. Non sorprende, quindi, che il 9% degli interpellati prevede di chiudere il 2022 con un fatturato in calo, e il 2% addirittura stima una perdita importante. Ancor più preoccupanti le risposte sulla chiusura dell’anno in termini di utile: il 36% prevede una significativa diminuzione, e il 15% una lieve riduzione.



È soprattutto il caro energia a preoccupare le imprese, in gran parte Pmi con spalle meno larghe rispetto ai big dei rispettivi settori. L’incremento dei costi energetici di gennaio 2022, per il 44% del campione, è aumentato di oltre il 50% rispetto a gennaio 2021. A cui si aggiunge un altro 30% che stima aumenti compresi fra il 30 e il 50%. Più frastagliato lo scenario relativo alle materie prime (latte, suini, uve, grano, commodities varie): oltre la metà delle imprese stima incrementi fino al 20%. Ma c’è un buon 9,5% che registra aumenti superiori al 50%. Nell’ambito dei materiali per il confezionamento – altro fronte caldo – spicca il 30% che riscontra aumenti tra il 20 e il 30%, oltre al 14% che rileva incrementi tra il 40 e il 50% e il 9,5% con incrementi superiori al 50%.



E se questo – al netto della recente crisi russo-ucraina – è un po’ lo stato dell’arte dell’industria, logico chiedersi quali siano i rapporti con la distribuzione. Il 16% delle imprese segnala una risposta negativa delle insegne, mentre circa la metà risponde di avere avuto aumenti compresi tra l’1 e il 5% per tutto l’anno. Ben nutrita anche la pattuglia di chi si è dovuto accontentare di aumenti limitati ad alcuni mesi, compresi tra il 6 e il 10%.

Una trattativa, quella tra industria e Gdo, dove le battaglie sono all’ordine del giorno e senza esclusione di colpi. Con le aziende che si lanciano in giudizi non proprio lusinghieri verso le centrali e le catene. Sostanzialmente, Gd e Do pensano che gli aumenti siano solo temporanei, dunque non c’è ragione di adeguare i listini. E l’industria di marca sarebbe vista con sospetto, accusata di speculare e approfittare della situazione critica. Con lo spettro di riversare questi costi sul consumatore finale, la distribuzione spesso non prende in considerazione le richieste e fa spallucce.



Nel report non mancano risposte piuttosto tranchant, evidentemente dovute al clima d’incertezza e ai margini risicatissimi. Giusto per citarne alcuni: “La Gdo vive su un altro pianeta e non ha interesse a sostenere i suoi fornitori”; “Scarsa preparazione sul tema, interessa soltanto il prezzo”; “Hanno il coltello dalla parte del manico e ne approfittano pur sapendo delle difficoltà che stiamo attraversando”.

Il giudizio sulla Gdo italiana, alla fine, è piuttosto netto: un misero 2% delle aziende la definisce “molto disponibile”. Per tutto il resto della platea è stata (e continua a essere) una battaglia lacrime e sangue. Abbiamo poi chiesto di stilare una lista dei ‘buoni’ e ‘cattivi’, ovvero di chi ha accettato un ritocco dei listini e di chi invece lo ha negato. I risultati sono contraddittori e riflettono le diverse anime dell’alimentare italiano. Coop, ad esempio, è seconda nella lista dei buoni e prima in quella dei cattivi. Così pure Esselunga e Conad, rispettivamente terza e prima nei buoni e seconda e terza nei cattivi. Evidentemente alcuni buyer hanno concesso gli aumenti, altri no.

Comunque sia, la situazione non accenna a migliorare e ognuno deve fare la propria parte. Senza un’assunzione di responsabilità da parte di tutta la filiera, si preannunciano scaffali vuoti e tempi durissimi.

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